quattro antiche capitali – my Myanmar 10. 107

28 febbraio 2012   martedì   13:15

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Le meraviglie della giornata mica sono ancora finite, il luogo pullula di monasteri e di guglie e il successivo santuario ha la stessa impostazione del precedente, cioè circonda lo stupa centrale con un numero impressionante di stupa piccoli, questa volta di forma tondeggiante, più che appuntita, ma egualmente culminanti in guglie d’oro, e anche ciascuno di questi stupa contiene una lastra di marmo in cui stanno incisi dei testi: nel caso precedente si trattava del canone buddista tutto intero, elaborato da un sinodo di monaci convocato dal re nell’Ottocento, poi pubblicato anche su carta in 38 volumi; qui invece ci stanno i commenti, altrettanto fitti; il che significa secondo la guida che, se un uomo si mettesse a leggere queste lastre per otto ore al giorno, gli servirebbero 450 giorni per finire di leggerle.

Ritorna il gigantismo buddista, che schiaccia l’uomo sotto il peso di una grandezza del Buddha insostenibile per lui, che pure formalmente è considerato soltanto un uomo, ma è portatore di principi che lo trascendono completamente.

Comunque l’impressione di questo edificio, forse più grande, ma un poco più disperso e meno compatto, è minore su di me.

* * *

Ma il mio motodriver ha deciso di ben guadagnare i suoi 4 euro di compenso, o meglio che io devo spenderli bene, mi fa saltare altri due o tre monasteri nei dintorni pianeggianti e mi porta direttamente sotto la collina di Mandalay, al punto in cui, tra due enormi mostri a fauci spalancate, inizia la salita che deve condurmi, tra pagode minori, edicole sacre ed altri santuari, alla pagoda che sta sulla cima.

La salita, devo riconoscerlo, mi mette a dura prova, nonostante il tramonto regali un’aria abbastanza fresca e tutto il percorso si svolga sotto l’ombra di lamiere decorate, o nel cortile dei vari luoghi sacri, e più il ritorno che l’andata, poiché vi è un tratto piuttosto ripido, quasi verticale, dove ci sono una ventina di gradini di 40 – 50 cm l’uno, e nella discesa nel farli mi si ingrippa il ginocchio destro, che comincia a farmi male in modo spettacolare, mettendomi in crisi dolorosa da morfina ad ogni scalino: ecco l’effetto del rodeo ferroviario di stanotte, commento tra me e me; ma poi, dopo forse 200 gradini fatti in queste condizioni, anzi via via peggiorando, quando proprio mi vedo perduto e comincio a meditare di chiedere un passaggio nel breve tratto in cui si attraversa una stretta strada lastricata, il dolore (che mi ero dimenticato di dire che mi aveva accompagnato in forma leggera per tutta la giornata, e anche per la successiva lo farà) ridiventa appena accennato e del tutto sopportabile, e quindi eccomi sceso.

Alla Guest House, in camera, la guida Routard dice che i gradini che ho fatto sono 1.700, ma istintivamente rifiuto l’idea: 300 gradini più della torre Eifel (che però mi feci con un bambino sulle spalle, anche)? No, non è possibile: il panorama dall’alto su Mandalay era spettacolare, anche se in questo periodo vi è sulla città una forte foschia data dalla polvere molto forte alla fine della stagione secca, come siamo adesso, ma l’altezza della collina, francamente non credo che superasse i 200 metri rispetto alla città, quindi ritengo che possano essere stati sommati nell’insieme i gradini dei tre diversi percorsi di accesso; però al rientro devo arrendermi all’idea, controllando sulla guida tedesca, che con precisione teutonica definisce 1.736 i gradini necessari per raggiungere la pagoda in cima; beh, sempre meno dei 5.500 gradini della scala che sembra sia la più lunga del mondo, mi dico a conforto di averli nonostante tutto fatti, ed è quella che porta nello Sri Lanka al Picco di Adamo: se sapevo che era così semplice farne un terzo, non vi avrei rinunciato nel 2004 per la paura di non farcela.

Inutile aggiungere, credo, che per oggi la prova mi è bastata, al motociclista ho aggiunto un euro, non di mancia, ma di gratitudine, per avermi salvato – non so come – la gamba.

* * *

Dedico l’indomani, preso un appuntamento indefinito col mio personale discretissimo motodriver, ad un tour follemente turistico in tre luoghi base, più aggiunte, che avrebbero meritato ciascuno una giornata intera per sé, con dormitine sotto qualche albero e commenti scritti di getto in loco; invece eccomi che mi butto da solo in pasto ad una possibile sindrome di Stendhal, e ci sono momenti in cui non so più se chi mi aspetta alla fine del mio ciondolante ritorno sia una barca, un carretto, oppure la motocicletta sulla quale intanto mi accomodo per partire: “Are You ready” e il mio compagno di Easy raider birmana non aggiunge altro, salvo gli accordi indispensabili ogni volta che mi lascia a me stesso, ed esattamente in queste circostanze.

Un santuario alla periferia di Mandalay, lungo la strada che obbligatoriamente dobbiamo fare per arrivare ad Amarapura, la prima meta esterna: si tratta di un edificio particolarmente kitsch, attraversato da manifestazioni di culto frenetiche, e circondato da uno spettacolo meraviglioso di decine e decine di botteghe artigiane dove si scolpiscono dei buddha di marmo, che riempiono completamente il quartiere, non solo dal punto di vista visivo, ma anche da quello sonoro, perché ovunque è un risuonare di frese o di martelli elettrici, i visi sono concentrati sul lavoro e neppure il traffico di moto e auto che praticamente si svolge sui piedi di chi sta lavorando riesce a togliere la concentrazione.

Nel santuario – già l’avevo letto nella guida – un Buddha d’oro dal viso particolarmente indifferente accoglie senza badarli i fedeli che si arrampicano nella nicchia per ricoprirlo di fogli sottilissimi d’oro: sono dello spessore ciascuno di un millesimo di millimetro, data la incredibile capacità dell’oro di lasciarsi ridurre in strati di pochi atomi di spessore, e sono perfino semitrasparenti, pare; qualcuno, per ostentazione, leggo, anziché destinarli al santuario, li destina a se stesso, e ad esempio ci avvolge le banane prima di mangiarle, perché non manca chi sostiene che l’oro faccia bene alla salute (beh, mio zio curava l’artrite reumatoide coi sali d’oro, ma ne morì lo stesso).

In ogni caso la testa del Buddha emerge quasi a fatica da un corpo straordinariamente rigonfio e goffo, non tanto perché anche qui Gotama è rappresentato grasso, ma perché foglietto dopo foglietto nei secoli lo spessore si è accumulato lo stesso; ed è oggi circa di 20 cm; il che significa che per ogni quadratino che viene appoggiato lì, sopra gli altri, e vi si incolla naturalmente, altri 20.000 hanno fatto lo stesso gesto in quel punto, e considerando la superficie pur sempre gigantesca della statua, questo significa che almeno qualche milione di persone è passato di qui a incollare il proprio foglietto d’oro devozionale.

* * *

Qui devo aprire una parentesi sgradevole, soprattutto rispetto ai molti che sono tornati dal Myanmar decantandone il clima mistico e la religiosità commovente; questa esaltazione non fa per me.

premessa: qui la gente è di una dolcezza meravigliosa, basta guardare la serenità e gentilezza con cui si svolge il traffico, la quasi totale assenza di clacson, lo spirito collaborativo che si manifesta ad ogni accenno di difficoltà o di ingorgo; e credo che nulla dica del vero carattere di un popolo quanto il modo in cui guida; altro che pacifismo indiano, ad esempio! E non siamo affatto lontanissima da Kolkhata e dalla lotta furiosa che in essa quotidianamente si svolge in ogni piazza o strada per affermare se stessi in lotta col mondo.

Riconosco molto volentieri, dato che ho anche il privilegio e il piacere di viverlo, l’effetto educativo meraviglioso prodotto dal buddismo birmano sugli abitanti di questo paese, ma non posso nascondermi, da quel che leggo, che le meraviglie architettoniche tra le quali mi aggiro sono state l’effetto di una intensa attività di restauro, recupero, ristrutturazione, nuova costruzione, tutte degli ultimi decenni; neppure il fallimento dello stato birmano nel 1986 è riuscito a fermare questo fervore religioso, di un buddismo che ha anche molto di apertamente magico e superstizioso.

E qui mi espongo in una bortocalata, prendetela per quel che vale, cioè niente, non vuole essere un’analisi, ma l’espressione di un dubbio o di uno stato d’animo: dittatura militare? E se alla fine fosse il frutto di una indifferenza diffusa per la politica, in un popolo che da decenni dedica tutte le sue risorse migliori e tutte le sue energie alle manifestazioni della propria fede buddista? Con spirito di sospetto mi verrebbe da dire: che rapporto c’è stato e c’è tra la giunta militare e la gerarchia buddista? E siamo sicuri che le cose sarebbero state profondamente diverse, se avesse governato Aung San Suu Kyi, la donna che tutti conosciamo almeno di vista, premio Nobel per la Pace come capo dell’opposizione, nonché figlia di una specie di padre della patria ed eroe della guerra per l’indipendenza, il cui viso stava fino a non tantissimo tempo fa sulle banconote del paese?

La chiusura verso l’Occidente è un prodotto della giunta militare oppure la giunta militare stessa è una specie di alibi per ottenere questa chiusura? Solo qualche giovane isolato qua e là manifesta nell’abbigliamento o nei comportamenti gli effetti del condizionamento consumistico e di costume della nostra cultura; in nessun altro paese visitato sinora, tranne forse l’Etiopia, ho visto una tale sostanziale indifferenza per i valori occidentali: la Birmania è birmana, e sembra quasi che, se la democratizzazione dovesse essere una imposizione a questo paese dei nostri standard di vita e di consumo, questa sì sarebbe la vera violenza contro questo popolo.

Forse i cinesi, a cui del resto i birmani sono molto vicini (se non altro hanno una lingua imparentata e tonale come la loro) conoscono questo popolo meglio delle nostre ambasciate e non si intromettono, li lasciano fare, li prendono per quel che sono; d’accordo, alle ultime elezioni libere l’opposizione prese quasi il 90 per cento dei voti, e i sostenitori del governo militare 10 deputati, ma se vi fosse davvero una volontà diffusa di far seguire ai voti i fatti, come sarebbe possibile un governo fondato sulla pura forza?

Credo che i birmani si siano invece rassegnati, dopo il famoso sciopero generale superstizioso dell’8 agosto 1988 e abbiano preso atto che per allora le potenze magiche non erano dalla loro parte…

Insomma, come vedete, una perfetta ambivalenza da parte mia: superstizione, che qui riconosciamo, mentre non vediamo la nostra superstizione per il denaro, ma nello stesso tempo cultura da rispettare; non mi ci esalto, ma come diffido di coloro che ritornano da turisti esaltando la profondità del sentimento religioso del paese, nel momento stesso in cui, se potessero, lo invaderebbero con i propri prodotti commerciali e cercherebbe di assorbirne le ricchezze sottraendole ai loro pasciutissimi Buddha coperti d’oro.

Ogni popolo ha la sua particolare follia: rispettiamo quella dei birmani, cominciando col dire che il buddismo in loro, diverso in questo da quello singalese, da quello cinese, da quello tailandese, è superstizione pura; e che a loro va benissimo così; sono un relativista, ma ditemi in nome di che cosa dovrei sentirmi autorizzato a cercare di distoglierli da questo modo di pensare che funziona molto bene? In nome del miglioramento delle condizioni delle masse? Bene, ne abbiamo visto di popoli le cui condizioni economiche sono leggermente migliorate, e che nello stesso tempo hanno perso la felicità della loro povertà originaria ed oggi sono soggettivamente ben più poveri, più carenti rispetto ai bisogni che abbiamo creato in loro, con un reddito maggiore magari 10 volte quello di 50 anni fa, ma schiavi dei bisogni economici che hanno come caratteristica il non poter essere saziati mai.

* * *

chissà perché mi sono lasciato andare a questa predica inopportuna…

e se invece continuassi a raccontarvi il mio viaggio? Se vi portassi con me ad Amarapura (continuo a confondere il nome con Anaradhapura, ma quello era Sri Lanka!), piuttosto?

“dov’è il casco?” mi chiede il driver, che si è portato sotto il tempio per raccogliermi; “te l’ho dato prima di entrare”, lui guarda la moto e non lo trova, poi scoppia a ridere e scende di corsa al punto in cui mi aveva scaricato: eccolo, il casco rosso, appoggiato sulla testa di un elefante di marmo!

I 13 km da Mandalay, fatti ad una velocità molto contenuta, sono finiti: eccomi solo davanti ad uno dei tanti monasteri: il dato più caratteristico di questa località, che fu capitale della Birmania per 40 anni nel Settecento e poi per 15 nell’Ottocento, è che si tratta di una città morta, che i santuari sono sul confine sottile che distingue un edificio in decadenza dall’inizio di una rovina; si esce dai corridoi coperti e ombreggiate e dalle pagode che contengono le statue del Buddha e ci si trova la biancheria stesa del piccolo borgo che si è annidato in questi luoghi, e rimane indifferente alla presenza dei turisti: qui si intrecciano le stuoie, che poi servono, in questo clima mai freddo, come parete delle vecchie case tradizionali, a volte su palafitte: poverissime e belle per gli intrecci che le rendono ciascuna diversa dalle altre.

Il verde è mosso solo da qualche uccello che salta tra un ramo fiorito e l’altro oppure dalla fuga veloce degli scoiattoli che si sottraggono quasi sempre con successo al mio obiettivo; qui sarebbe bello fermarsi e scrivere, non in questo pomeriggio dedicato al riposo e al recupero delle energie sotto il ventilatore silenzioso della mia camera.

* * *

poco lontano da questo posto magico, un altro stralcio da una favola è il ponte di U Bein, in grossi pali di teak, costruito nell’Ottocento demolendo il palazzo reale di Inwa: un passaggio pedonale sul fiume, che qui è largo circa due km; di là ci sarebbero un paio di interessanti pagode, ma il driver mi ha raccomandato di tornare indietro a metà del ponte; io l’ho fatto quasi tutto, affascinato dai tipi umani che si incontrano, in particolare nelle edicole coperte che lo costellano a distanze regolari, oggi utilizzate per proporre ai turisti ogni tipo di chincaglieria e di modesto artigianato locale, ma non ho avuto il coraggio di sbarcare, mi sentivo quasi addosso i suoi occhi dall’altra parte del fiume.

I paesaggi fluviali sono autentici: donne sbattono in lontananza i panni nell’acqua, ragazzi sembra che ci facciano il bagno e invece trascinano le reti, monaci attraversano il ponte nelle loro tuniche viola, ragazze molto belle sorridono e si fanno fotografare (sono molto libere le donne birmane); casali perduti sul bordo dell’acqua, che certamente verranno sommersi nella stagione delle piogge, alberi risecchi che sembrano collocati al posto giusto da un pittore romantico; disturberebbero giusto quel paio di pullman, là in fondo, ma le fotografie riusciranno a tagliarli fuori quasi sempre dalle inquadrature, restituendo intatto un mondo che già non lo è più.

* * *

dal ponte di U Bein il driver mi porta al traghetto per Inwa, che fu capitale per quattro secoli e poi anch’essa per meno di vent’anni nell’Ottocento, ma di cui, in quanto città non è rimasto nulla salvo che qualche accenno di mura che contengono oggi solo campi.

Il tratto di fiume da varcare è qui molto modesto, poco più che un largo canale, e appena si sbarca decine di calessi attendono i turisti; la guida non è molto chiara a riguardo, vorrei evitare questo intrattenimento che mi pare prettamente turistico, poi la mancanza di visibili emergenze architettoniche attorno al punto di sbarco, mi convince alla fine, si aggiungono le parole, rivelatesi veritiere del padrone del calesse, prima di affidarmi al suo cocchiere a cottimo: sono 11 km di giro in tutto; ed eccomi con la mia schiena semidolorante a farmi scarrozzare con tanto di campanellini nei punti diversi di questa seconda città morta.

fra tutti la più interessante (ma carissima: 10 euro di biglietto di ingresso! ma facciamo conto che sia stato un tributo a tutto il resto visto gratis nella giornata) è una originale pagoda di legno; colpisce però visivamente di più una pagoda molto antica, di mattoni rossi, che richiama atmosfere del buddismo antico di Sri Lanka o Thailandia, o la torre di guardia, ultimo resto del palazzo reale, inclinato come la torre di Pisa a seguito di un terremoto, ed affacciata sulla pianura tropicale.

* * *

* * *

mica basta: la prossima tappa è Sagaing, che è invece una vera e propria dinamica cittadina, che il driver ha forse tenuto alla fine per sadismo: la percorre tutta, fra le pagode che in numero indescrivibile la segnano e ancor più si profilano sulle colline a decine in un paesaggio decisamente surreale, e mi scarica ai piedi della scala d’accesso alla collina.

Ma questa è alta almeno una volta e mezzo la collina di Mandalay! Nessun numero di gradini sulla guida, del resto forse è minore perché la pendenza a volte è del semplice sentiero e neppure occorrono sempre scale.

In ogni caso si sappia che mi sono sentito quasi male e, arrivato al colmo, mi sono bellamente addormentato una mezzoretta su una panchina: avevo un vero e proprio affanno.

Inutile descrivere il tempio sommitale, particolarmente colorato; il pezzo forte era quel tramonto sterminato su pagode dorate disseminate sulle trenta colline che formano Sagaing.

Nessun problema a scendere, nonostante le paure, salvo che il primo tratto l’ho preso in direzione sbagliata e sono arrivato a un piccolo monastero dove tre monaci ragazzini si stavano lavando attorno ad una fontana e sono anche dovuto risalire…

Il driver mi aspettava e siamo ripartiti in mezzo ad una polvere incredibile e a tratti in mezzo a una incredibile sfilata di angurie in venduta lungo la strada, arrivando – come lui desiderava – prima che facesse buio, proprio alla fine del tramonto.

Ha fatto anche benzina, in questo tragitto; e avreste potuto chiedermi come si fa a fare benzina in Birmania, considerando che non si vede nessun distributore mai lungo le strade.

Posso rispondervi per questa esperienza fatta: quegli scaffali azzurri pieni di bottiglie di plastica che sembrano di acqua sporca lungo le strade con dei piccoli cartoni scritti a mano, dove si riesce a leggere 1.000, e col senno di poi si capisce che un litro costa 1.000 kyat, cioè poco meno di un euro? sono i distributori della Birmania; qui, a giudicare dal driver, che ha anticipato dal compenso non ancora intascato dell’intera giornata di lavoro (10 euro!), si compera un litro alla volta.

* * *

rientrato in camera non ne sono più uscito, ero sporco in una maniera incredibile, non avevo voglia né di scrivere né di dormire, mi sono lavato, tremavo forse di troppo sole, forse di troppa stanchezza, mi sono messo sotto la coperta di lana e ho letto fino a che si è fatto tardi tardi.

Poi ho caricato il cellulare perché mi facesse da sveglia per l’indomani, cioè oggi: che ho dedicato a un viaggio solo, e di sola mezza giornata; e per il resto scrittura, che non fa mai male…

10 risposte a “quattro antiche capitali – my Myanmar 10. 107

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  5. https://veronicaiovino.com/i-ponti-piu-belli-del-mondo/

    bortoround 07/02/2022 at 22:12
    bentornata, Veronica!
    che frustrazione queste foto una più bella dell’altra, mi sono detto: non ho visto nessuno di questi ponti…, peccato.
    e invece no, uno l’ho proprio visto e giusto quello che tu hai considerato il più bello!

    bortoround 07/02/2022 at 22:13
    scusa: dal minuto 3 in poi; i primi tre minuti sono il viaggio in moto col driver per arrivarci.

    Veronica 08/02/2022 at 07:21
    Carissimo Mauro, sai che me lo sono chiesta: “chissà se Mauro è stato in quello in Myanmar ” dato che quando penso all’Asia mi venite sempre in mente tu col tuo giro del mondo e Terzani. Però avevo escluso il ponte dorato in Vietnam e il Ruyi che sono recenti…e come al solito non smetti mai di stupirmi…e dimmi, ci hai camminato al tramonto?
    Un abbraccio fortissimo ❤

    Veronica 08/02/2022 at 07:23
    Vado a vederlo…così lo scopro insieme a te e magari un giorno non lontano ci possa salire anche io😍

    comma22corpus 08/02/2022 at 22:47
    cara Veronica, come avrai visto, no, non era al tramonto.
    ma quel che era affascinante di questo ponte antico è che non è per niente turistico: lo usano ancora per spostarsi da un la to all’altro del lago e dunque la vita reale e tradizionale del posto si mescola con quel poco di turismo che c’è.
    ci andai nel febbraio di dieci anni fa, quindi a breve ripubblicherò i resoconti del viaggio in Myanmar nel mio blog del decennale.
    ma ti ricopio la parte che riguarda il ponte di questo post: https://bortocal.wordpress.com/2012/02/28/107/ :
    “poco lontano da questo posto magico, un altro stralcio da una favola è il ponte di U Bein, in grossi pali di teak, costruito nell’Ottocento demolendo il palazzo reale di Inwa: un passaggio pedonale sul fiume, che qui è largo circa due km; di là ci sarebbero un paio di interessanti pagode, ma il driver mi ha raccomandato di tornare indietro a metà del ponte; io l’ho fatto quasi tutto, affascinato dai tipi umani che si incontrano, in particolare nelle edicole coperte che lo costellano a distanze regolari, oggi utilizzate per proporre ai turisti ogni tipo di chincaglieria e di modesto artigianato locale, ma non ho avuto il coraggio di sbarcare, mi sentivo quasi addosso i suoi occhi dall’altra parte del fiume.
    I paesaggi fluviali sono autentici: donne sbattono in lontananza i panni nell’acqua, ragazzi sembra che ci facciano il bagno e invece trascinano le reti, monaci attraversano il ponte nelle loro tuniche viola, ragazze molto belle sorridono e si fanno fotografare (sono molto libere le donne birmane); casali perduti sul bordo dell’acqua, che certamente verranno sommersi nella stagione delle piogge, alberi risecchi che sembrano collocati al posto giusto da un pittore romantico; disturberebbero giusto quel paio di pullman, là in fondo, ma le fotografie riusciranno a tagliarli fuori quasi sempre dalle inquadrature, restituendo intatto un mondo che già non lo è più.”

    Veronica 10/02/2022 at 19:18
    Mi perdo in questa descrizione meravigliosa che ne hai fatto caro Mauro “I paesaggi fluviali sono autentici: donne sbattono in lontananza i panni nell’acqua, ragazzi sembra che ci facciano il bagno e invece trascinano le reti, monaci attraversano il ponte nelle loro tuniche viola, ragazze molto belle sorridono e si fanno fotografare (sono molto libere le donne birmane); casali perduti sul bordo dell’acqua, che certamente verranno sommersi nella stagione delle piogge, alberi risecchi che sembrano collocati al posto giusto da un pittore romantico” e mi dai conferma del primo posto che ho voluto assegnargli perché, a pelle, mi trasmetteva quell’autenticità e quella bellezza della semplicità che si perde nelle colossali strutture di cemento che sì sono meravigliose ma non profumano del posto in cui sorgono…E soprattutto mi dai ulteriore conferma sul fatto che là sopra non ci sono turisti ma persone❤

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