sembrava amore ed era un calesse – my Myanmar 15

9 marzo 2012 venerdì  06:30

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Il 2 marzo – e invece è il 3 – inizia col noleggio di due calessi per visitare la parte di Bagan più lontana dalla Guest House, con due cocchieri di diversa età, uno più esperto, l’altro più giovane, sui quali ci distribuiamo rigorosamente per sesso, con logica da collegiali, o forse per togliere Christine dall’imbarazzo non tanto di scegliere con chi stare, meglio da quello di stare con me, dato che non potrebbe certo stare con Bernard e lasciare Annie in calesse con me; quindi, le donne col cocchiere giovane, e gli uomini con quello più anziano.

Oggi Annie sta bene, a differenza di me, che ricomincio quasi subito a soffrire orrendamente di stomaco, cosa che continuerà, con lievi intermittenze per l’intera giornata, il che forse mi aiuta nelle considerazioni che seguono.

* * *

Questo post era originariamente pensato come appendice e conclusione del precedente, che poi però è diventato talmente lungo di suo da consigliare di farne uno distinto per la giornata del 2 – no, in realtà 3 – marzo.

Ho già detto che a Bagan sopravvivono solo, ho detto “solo”, 4.000 pagode delle diecimila di un tempo, e sono ora sperdute in una specie di arida savana dall’alberaglia sparsa, anziché immerse nella foresta o giungla originaria, che è stata via via distrutta, per alimentare con la legna le fornaci che servivano a cuocere i mattoni per costruire sempre nuovi stupa in onore di Buddha; così che anche Bagan, come Petra o Rapa Nui, l’isola di Pasqua, oppure l’America e l’Australia, continenti interi, è uno di quei luoghi che mostrano che l’umanità non ha dovuto attendere la rivoluzione tecnologica per distruggere l’ambiente in cui viveva.

Attraverserò in questi giorni questi luoghi magici con questa strana sensazione (per non dire con questo senso vagamente ridicolo di superiorità) di essere l’unico che vive la visita alla polverosa Bagan come ad uno dei luoghi che testimoniano la capacità degli umani di devastare completamente un ambiente fino a distruggere ampiamente le sue stesse capacità di alimentare un sistema ecologico equilibrato, e ridurle ad una misera parte di quelle che erano originariamente.

Con le altre due località simbolo che ho ricordato, Bagan poi dimostra il ruolo particolare avuto nella distruzione ambientale da quella forma di delirio paranoico che chiamiamo religione; in questi tre casi, infatti, non è stata tanto la ricerca della pura sopravvivenza a determinare la catastrofe, bensì quella parossistica e incontrollata di dare espressione al proprio bisogno religioso: le grandi teste di Rapa Nui, che hanno riempito l’isola, i templi rupestri scavati nelle rosse montagne di Petra e qui le diecimila pagode che costellavano una giungla via via distrutta per costruirle.

Ma è l’intero Myanmar centrale ad essere oramai ridotto a una simile discontinua savana: per ora non si sono viste le giungle originarie della sua tradizione leggendaria e neppure gli elefanti più, che ritornano invece come motivo ossessivo delle decorazioni originali: attorno a noi sta invece questo paesaggio arido e polveroso, forse legato al particolare momento della visita, ma che sembra esprimere adeguatamente la condizione e il grido di dolore di un territorio che soffre, giunto agli estremi limiti della sostenibilità umana, anche prima dell’arrivo del consumismo.

Questa campagna arida e polverosa, che giusto attende ancora le piogge che invece quassù sulle montagne sono cominciate, anche se – ascolta, ora che sto scrivendo al Queen Inn vicino al lago Innle, e sono ancora le prime ore del 4 marzo – lo scroscio è durato mezzora, è già finito, per il momento, e la pianura riarsa laggiù attende ancora.

E, ieri, una fornace fumante, proprio come quelle di cui parlavo all’inizio, che hanno via via cancellato la foresta originaria, fatta di una specie di vasca rettangolare capovolta, con pareti di argilla secca e file di mattoni ammucchiati che sembrano fare da rinforzo, sulla quale provo ad arrampicarmi scalando una fila di mattoni per fotografarne l’interno dall’alto, con l’unico risultato di far crollare la pila dei mattoni e aprire così una vista diretta sul fuoco interno vivo e incandescente.

* * *

Ma anche queste ultime sono sensazioni legate piuttosto al lungo viaggio di ieri, di cui parlerò; ora lasciate che i cocchieri ci facciano anche da guida, alternando con sapienza alle pagode, pur sempre interessanti, altre esperienze.

Quella del mercato, ad esempio, che qui è popolare e abbastanza autentico, anche se l’arrivo di turisti occidentali scatena subito attese e diverse proposte: una ragazza in particolare mi offre il famoso cosmetico giallo locale da spalmare sulla faccia, io credo che me lo voglia vendere e ovviamente rifiuto; invece è un regalo e la piccola saponetta sta nella mia borsa: intanto lei me ne spalma un poco sulla faccia, bagnandolo con l’acqua, il che contribuirà durante la giornata a farmi avere un successo di sorrisi straordinario.

Poi viene un autentico villaggio di capanne di foglie di palma intrecciata, con vedute di una tenerezza straordinaria.

Che però al momento è totalmente assorbito da una specie festival locale, dove dei bambini paurosamente agghindati e truccati ascoltano per ore un presentatore col microfono e una musica del posto; non mancano, oltre alla classica videocamera globale di Bortocal, neppure delle vistose macchine da ripresa televisiva in mano a professionisti birmani.

Ed ecco la visita a un monastero buddista più recente e ancora parzialmente attivo, discretamente annidato in mezzo all’area archeologica, dove la vita dei monaci apparentemente ruota attorno alla figura venerata di un monaco anziano (78 anni), che sembra attenderci alla fine di una sala davanti ad un vassoio dal quale si nutre lentamente, con uno sguardo vagamente acquoso, che noi potremmo classificare come un pre-alzheimer, ma che invece qui palesemente appartiene alla categoria concettuale del pre-nirvana.

Il vecchio vive in una condizione di narcisismo assoluto, soddisfatto della sua vecchiezza che qui appare decrepita, e delle attenzioni quasi morbose che i condiscepoli più giovani gli dedicano, orgogliosi di esibirlo agli inconsapevoli visitatori stranieri che poco capiscono, e se capissero si domanderebbero se davvero quel vecchio è così distaccato da tutto, come attorno tifano che lui sia: distaccato anche da questo amore che gli portano e che a me pare perfino perverso, abituato, come tutti noi, dalla logica efficientista della nostra cultura a vedere la vecchiezza come decadenza e non come traguardo e modello?

Il bello è che mi rendo conto di questo solo ora che ne sto scrivendo, l’altroieri l’idea non mi ha neppure attraversato la mente, non ero riuscito ad abbandonare i miei schemi mentali e mi sono lasciato mostrare con la mente bloccata i freschissimi sotterranei del monastero, con i loro giacigli di stuoie, dove i monaci si distendevano per meditare, ci viene detto, e a volte per raggiungere il nibbana.

Ma anche qui, di nuovo, non che io abbia fatto che due più due fa quattro, e che quindi i monaci ci venivano per morire distaccati dal mondo che è la suprema aspirazione buddista.

Pazienza se ci penso solo adesso, i blog servono mica anche a questo?

* * *

Naturalmente molto della visita alle pagode viene impiegato, a Bagan come altrove, all’esame invece dei numerosissimi baracchini di souvenir, prodotti artigianali, chincaglieria varia, che assediano ogni monumento.

Il Myanmar appare paese dalla tradizione artigianale quanto mai varia e complessa, a volte condivisa con quella di altri paesi, per esempio i tessuti di cotone o di seta (proprio oggi Bernard ha individuato con occhio esperto una pianta di cotone fiorita in mezzo alle sterpaglie), oppure le ceramiche, che però qui hanno qualcosa di caratteristico, ad esempio il riferimento al bambù delle scodelline che ho comperato numerose per regalarle qua e là; altri sono prodotti locali tipici, come le lacche, ad esempio, diversamente complesse, oppure gli ombrelli, e ancora burattini e marionette, o certi strani apriscatole di legno.

In nessun altro paese o forse in nessun altro periodo della mia vita mi è capitato di farmi prendere da un entusiasmo consumista come qui: con Christine restiamo affascinati da due originali ed enormi pesci rossi ricavati con foglie di palma intrecciate: ci piacerebbe prenderne uno per ciascuno, poi lei mi dice di non avere abbastanza spazio nella sua stanza berlinese per appenderlo; neanche io sono sicuro di trovargli spazio tra la mia casa di Brescia e quella di Stoccarda, ma non importa, potrebbe essere quel regalo speciale che mia figlia Sara mi ha raccomandato le porti dal Myanmar; rimane aperto solo il problema di come far contenere la bestia con tutte le sue frange nella valigia, senza che si rovini, ma è di nuovo Christine a suggerirmi di metterla sul fondo ripiegando le pinne e la coda sui lati, come in effetti mi riuscirà di fare una volta alla Guest House, e l’affare è concluso: io sono inetto nelle contrattazioni e solo fra due giorni capirò che qui il prezzo reale di una merce è pari ad un terzo del richiesto; mi accontento di uno sconto modesto, l’oggetto mi piace ed è molto particolare, sono d’accordo a premiare la creatività di questo artigiano, che mi dice che sta facendo pochi affari, per impietosirmi, e però non riesce a trattenere un’esclamazione di gioia appena ho finito di pagare un prezzo per me modesto e per lui esagerato.

* * *

Christine ha il terzo occhio, però chi mi conosce sa che ce l’ho anche io: “ci scambiamo il calesse?” domanda anche a nome di Annie, ma io senza pensarci rispondo di no; che cos’ha di male il suo cocchiere che ha dormito e poi giocato a una specie di dama sotto un albero mentre noi contrattavamo qua e là?

Ce ne accorgiamo poco dopo: facciamo un percorso particolarmente accidentato su un sentiero di sabbia che presentava una grossa infossatura, che ci ha fatto oscillare paurosamente, e ci tocca aspettare il calesse delle dame che non arriva; ci stiamo già domandando che cosa sia successo, quando eccole comparire appiedate, e dietro di loro il cavallo sofferente e leggermente claudicante: nello stesso maledetto passaggio che il cocchiere esperto aveva gestito con abilità frenando e indirizzando bene il cavallo, che è una persona viva a suo modo, non un motore, e va condotto con parole, gesti, e punture di frusta, oltre che col linguaggio fermo delle redini, l’altro cavallo è inciampato, cadendo rovesciato e buttando per aria il calesse, dal quale Christine ed Annie sono riuscite a saltare come due ragazzine prima di farsi male; chissà se il sottoscritto barbogio ce l’avrebbe fatta con altrettanta destrezza.

Poi il cocchiere ha dovuto rialzare il cavallo e il carretto; nessuna frattura, per fortuna, che sarebbe stata mortale per la bestia, ma una lacerazione al ginocchio piuttosto profonda e che ora sanguina; anzi la fatica del ritorno allargherà la piaga che intanto viene grossolanamente fasciata con un fazzoletto tagliato a strisce.

Ci si accorda perché Annie salga terza da noi e il cavallo ferito continua zoppicando un po’ trasportando solo Christine, ecco tutto.

* * *

con gli amici che si abbuffano io ceno sempre dolorante anche all’arrivo con una semplice ma taumaturgica soup, del resto qui le porzioni sono sempre gigantesche e, assieme all’insalata squisitissima di avocado, mescolata a chissà quali altri sapori, basterebbe davvero a sfamarmi.

A cena Christine racconta la disgrazia nel viaggio da Yangon per Bagan di capitare seduta proprio a fianco dell’unico musulmano dell’autobus: questa battuta che mi avrebbe reso sospettoso contro chiunque, me la rende ancora più interessante.

Però oramai le nostre strade si dividono: lei ha deciso di fermarsi a Bagan domani, cambiando effettivamente Guest House, Annie e Bernard prenderanno l’aereo per l’Innle Lake, dove voglio andare anche io (se mi fermassi un altro giorno a Bagan, salterebbe probabilmente tutto il mio piano di viaggio), e cercano di convincermi a fare altrettanto, viste le mie cattive condizioni di salute; io in realtà non ho ancora deciso, il prezzo del volo è modesto, 68 euro, ma l’idea di saltarmi la percezione viva dell’ambiente non mi piace, anche se ammetto che il Myanmar ha delle distanze davvero impossibili, e che affrontare un altro viaggio di 17 ore potrebbe sembrare una follia; poi il gestore dice che i biglietti del bus diretto sono esauriti, ma di non spaventarmi, basta fare una sosta intermedia in una cittadina di cui ora mi sfugge il nome: alla stazione dei bus sentirò gridare Innle Lake, Innle Lake, basterà salire in fretta e sarà un gioco da ragazzi; la guida Routard illustra invece i disagi del collegamento fra l’aeroporto e il lago, per cui alla fine mi decido per questa scelta; pago i 10 euro del primo biglietto, basterà che mi trovi alle 7 sulla porta della Guest House, il bus passa a prenderci direttamente qui davanti, sulla via principale.

Poi si sale tutti alla veranda della Guest House per il rito di internet, cui tutti ci colleghiamo per le mail e quant’altro, soprattutto Facebook, di cui Christine mi chiede l’indirizzo, senza ottenerlo.

* * *

Qui avevo programmato una ulteriore divagazione su come internet abbia oramai cambiato il modo stesso di viaggiare; io ad esempio devo risolvere nonostante le ferie due gravi ed urgenti problemi di lavoro, perché mi hanno scritto aspettando indicazioni.

Però siccome credo che le mie considerazioni non siano particolarmente originali e facili da intuire anche da soli, terminerei qui anche questa puntata, che è già diventata abbastanza lunga per conto suo, e non ha bisogno di altre pappe riscaldate dopo quella dell’inizio.

Basterà dire che è il dopocena degli addii, ovviamente col relativo scambio di mail, e da parte mia anche di indirizzo della pagina You Tube, giusto per restare in tema.

Non fate caso, comunque, se questo post è scritto in un tono un poco depresso, passa.

15 risposte a “sembrava amore ed era un calesse – my Myanmar 15

    • ti ringrazio molto di questi commenti incoraggianti, oramai i resoconti sono stati già quasi tutti scritti, tranne quelli degli ultimi due giorni e le considerazioni generali finali su questo viaggio, per cui verranno pubblicati al ritmo di uno al giorno comunque; però fa certamente sapere che c’è qualcuno che li apprezza.

    • cara patrizia,

      mi è stato detto anche a voce ieri, la stessa cosa, ma in tutta sincerità e non per tirarmela, faccio fatica a riconoscermi in queste lodi, che comunque fanno molto piacere, ovviamente.

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  6. C’è talmente tanto ! Mi viene da dire che un po’ di povertà esalta la bellezza per me è una ricchezza più vera.
    Il titolo fa ridere e pensare ad altro …Era davvero un calesse e il nocchiero un po’ malmesso. Accidenti agli incidenti …
    Al monastero ,i giovani monaci ,con sguardo pre-nirvana , più adeguato … è vero 👏

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