facsimili. [borforismi 46]

18 Maggio 2012 venerdì 07:06

.

la verità?

un nome collettivo per una raccolta di facsimili senza l’originale.

* * *

inutile provare a separare allora il concetto di verità da quello di realtà.

non solo la verità è solo un altro tipo di menzogna, lo è a maggior ragione anche la realtà.

* * *

eh sì: siamo nel pieno del paradosso del cretese, quello che diceva che tutti i cretesi mentono sempre ed era impossibile stabilire se stava mentendo dicendo così oppure dicendo la verità.

già questo paradosso avrebbe dovuto semplicemente liberarci o del concetto di “verità” o del concetto di “sempre”.

dal paradosso si esce solo affermando che qualunque frase che contiente il concetto di “sempre” è priva di senso.

* * *

però, a meglio guardare ancora, il paradosso stabilisce una connessione stretta appunto fra il concetto di “verità” e il concetto di “sempre”: è impossibile dire “sempre”, quindi è impossibile parlare di verità.

* * *

dicendo che la verità non esiste stiamo però cercando ancora di dire una verità?

dipende: la critica sarebbe mortale: forse stiamo soltanto di esprimere la nostra depressione e il blog ci serve da terapia?

* * *

la verità è come la fede: ce la portiamo dentro, in varie forme, e non possiamo farne a meno.

questo non basta a darle nessun altro tipo di senso, che non sia quello biologico, cioè che siamo fatti così.

* * *

questo ulteriore post sul tema vorrebbe essere un ringraziamento purtroppo tardivo ai commentatori di la verità quantistica , che lo hanno sollecitato con le loro osservazioni sempre acute.

sempre sperando che il ringraziamento sia tale e non risulti piuttosto come il tentativo di infliggere al lettore la pena di un altro post… 😉

con l’occasione mi scuso con tutti coloro che mi hanno scritto nei giorni scorsi e che attendono ancora una risposta: sono semplicemente in un periodo di superlavoro pazzesco: abbiano fede, cioè credano nella verità di queste mie parole… 🙂

23 risposte a “facsimili. [borforismi 46]

  1. Caro Bortocal,
    il blog ci serve da terapia?
    Si. Siamo dei “forzati della comunicazione”. Comunichiamo per sentirci “vivi”, pur sapendo che nulla cambierà nella nostra vita (oltre una certa età). Le interlocuzioni sono, a ben vedere, solo rumore di fondo, che scuote uno stanco metabolismo. Gli “autistici” sono “forzati” al silenzio e, certo, ne soffrono. Il Buddha non forzava. Non soffriva. Si lasciava essere, senza commenti. Senza predicazioni (enunciati assertivi) inutili. Senza Blog con effetto placebo*.

    *l’effetto placebo è una conseguenza del fatto che il paziente si aspetta o crede che la terapia funzioni, indipendentemente dalla sua efficacia “specifica”.

    la verità è come la fede ?
    I “dis-incantati” non hanno fede (religione) né verità da dis-velare (ἀλήθεια). Non credono nella permanenza delle cose. Aspettano che ogni evento si compia secondo le regole che gli sono proprie. “Così” son fatti e non si pongono problemi extra-biologici.
    Ciao

    • caro Carlo,

      intanto plaudo al tuo ritorno qui, sempre che non vi sia già stato qualche altro commento affondato nella mistura dei molti più lontani a cui devo ancora rispondere.

      ancora una volta eccoti approfondire, squarciare, sollecitando nuove visioni dalle lacerazioni.

      congiungo due passaggi della tua risposta: il blog come terapia si fonda su un effetto placebo, come dici tu?

      per rispondere occorrerebbe capire bene quale è la malattia che il blog cerca di curare: fosse una manifestazione di carenza di comunicazione, che è un ricostituente di cui molti hanno bisogno più che di una vitamina, la terapia sembrebbe incidere davvero e non essere un puro placebo.

      forse è il concetto di placebo che andrebbe analizzato meglio: dove la malattia è psicosomatica il placebo è giusto giusto la terapia più adeguata…

      ma tu preferisci dire che siamo dei “forzati della comunicazione”, che è poi non troppo diverso dal dire che siamo dei forzati della vita…

      in questo senso non ti do ragione: siamo i forzati del respiro, del cibo, dell’amore; in questo cerchio allargato di bisogni e vincoli siamo quel che siamo, cioè appunto siamo le nostre limitazioni e le nostre schiavitù.

      non è vero, secondo me, che comunichiamo per “sentirci” vivi, perché non esiste vita che non sia comunicazione e condivisione: comunichiamo per essere vivi, invece; ho parlato prima di respiro, di cibo, di sesso, e sono tutte forme di comunicazione e condivisione.

      l’idea sottintesa potrebbe apparire quella che noi siamo senza essere contemporaneamente corpo e desiderio e carne, che potremmo essere in un oltre senza limitazioni.

      ma non esiste comunicazione senza cambiamento, dici tu: e hai ragione! ma dove hai torto è nel dire e nel pensare che oltre una certa età non vi sia più possibilità di cambiare, cioè di condividere e forse anche di amare.

      non sono un giovincello e avendo avuto compleanno da pochissime settimane sto già vivendo il mio 65esimo maggio, e non posso non vedere che è diverso da ogni altro sinora vissuto.

      ma forse neghiamo il cambiamento perché lo temiamo, tendiamo a rifiutarlo, piuttosto?

      se è così riconciliamocoi al più presto con l’esaltante esperienza della vecchiaia, che non è affatto stanco metabolismo se non nell’immaginazione stereotipa di chi non l’ha ancora vissuta.

      sul Buddha la recente esperienza birmana mi induce a sospendere il giudizio; mica è vero che il Buddha non predicava, anzi un uomo che alla fine della predicazione regalava al potente monarca di turno alcuni dei suoi capelli, forse era afflitto da una forma di narcisismo patologico (absit iniuria).

      bello il richiamo implicito alla etimologia del termine verità in greco antico, che ha a che fare col concetto di lanthano. con lo stare nascosto, e allora alétheia, la verità, è lo stato che si oppone allo stare nascosto; la verità come disvelamento appare come il frutto di una conquista e di un impegno.

      condivido completamente invece le tue conclusioni e le tue definizioni del disincanto.

  2. Caro Carlo,
    i “dis-incantati” aspettano che ogni evento si compia secondo le regole che gli sono proprie. Ecco, appunto, il cruccio dello scenziato e del filosofo non sono gi eventi ma le REGOLE che li determinano. Ci piacerebbe conoscere l’origine di queste regole. A noi piacerebbe conoscere la teoria del tutto.
    Caro Bortocal,
    oggi l’argomento della Verità ha ispirato il mio “pensiero” di oggi, ehehehe…
    La verità e la falsità non sono simmetriche. Ne parlo nel mio blog. Ecco una congettura che, volendo, può sconvolgere, oppure lasciare indifferenti. Dipende da quanto ci interessa.
    Ciao!

    • caro Michele,

      il tuo post http://ilpensierodioggi.blogs.it/2012/05/18/verita-e-falsita-sono-asimmetriche-13700511/ sviluppa in modo molto chiaro e rigoroso quanto, più confusamente, avevo provato anche io a dire nel penultimo borforisma: una verità è impossibile, perché sarebbe il contrario non di una menzogna sola, ma di infinite.

      dunque menzogna e verità sono asimmetriche anche secondo me.

      incidentalmente osservo che se questo può portarci ad affermare la grande diffusione della menzogna e la sopravvivenza della verità soltanto in aree residuali,

      che è come dire che il fondamento dell’essere è la menzogna…

  3. Caro Bortocal,
    quale è la malattia che il blog cerca di curare?
    Non si tratta di una malattia, ma semplicemente è un modo di essere dell’uomo (ζoον πολιτικόν).

    comunichiamo “per” essere vivi ?
    Non è un pro-getto il nostro. Quel “per” lo vorrebbe dichiarare. Noi “sentiamo” primariamente ed è il sentito (corpo e desiderio e carne) che ci guida.

    il Buddha non predicava ?
    Si, pre-dicava ma contemporaneamente proponeva il punto di “equilibrio permanente”, un luogo dove l’io veste l’abito del silenzio e dell’inazione (nirvana come fine ultimo della vita).

    oltre una certa età non vi e più possibilità di cambiare ?
    Certo che è possibile, ma occorre continuare a salire e lassù tutto si dis-vela diverso e in “questo” con-siste “l’esaltante esperienza della vecchiaia”.

    Michele
    Ci piacerebbe conoscere l’origine di queste regole. A noi piacerebbe conoscere la teoria del tutto?
    E allora come disse il grande fisico Richard Phillips Feynman, Zitto e calcola!

    • ah vedo con piacere che torniamo alle grandi discussioni di sistema!

      quindi procedo con ordine.

      1. anche la malattia è un modo di essere dell’uomo; se il blog cerca di correggere un modo di essere definendolo malattia, è solo perché quel modo di essere è doloroso, per se stessi oppure per gli altri, oppure per tutti; il principio del benessere e della felicità è l’unico che ci autorizza a cercare di intervenire su modi di essere singoli o collettivi.

      però non ho capito del tutto, lo confesso, il significato nel contesto del riferimento all’uomo aristotelico come animale politico.

      2. credo di concordare con la tua osservazione sul “per” nella frase “comunichiamo per essere vivi” (nata dalla tua, “comunichiamo per sentirci vivi”, come puntualizzazione ulteriore): non intendevo indicare alcun finalismo definito: se vogliamo dire piuttosto “siamo vivi, cioè comunichiamo”, anche per me va ancora meglio.

      3. il Buddha predicava l’inazione (che sarebbe stata da sola una contraddizione in termini), ma più ancora la praticava: direi che la pratica della meditazione inattiva era comunque anche un modo ulteriore di predicarla o diffonderla; alla fine il suo è un esempio un poco paradossale di attivismo dell’inattività 😉

      4. non vedo la vecchiaia come una ripetizione della salita dei 1.837 gradini della sacra collina di Sagaing, ma piuttosto come una discesa in battello lungo l’Irrawaddy, non dico facilissima perché ci si può sentire affaticati…; l’apertura di nuove prospettive mentali è però più interiore che esteriore, e si può raggiungere per questo anche solo discendendo all’approdo finale. 😉

  4. Caro Bortocal,
    l’apertura di nuove prospettive mentali è però più interiore che esteriore.
    Concordo.e in ciò, appunto, con-siste “l’esaltante esperienza della vecchiaia”. Il salire è anche un scendere dal piedistallo delle proprie certezze. Il paradosso diviene regola e lo scontato un’eccezione.

    l’uomo aristotelico come animale politico.
    L’Ipertrofia del “sociale” è un aspetto della dimensione antropologica. E comporta un proliferare di malesseri psicologici, che si “sfogano” sul Web.

    il Buddha predicava ….. la libertà dai progetti compulsivi. Consegnava al suo corpo la regia dell’azione, consolidata da un ‘esperienza milionaria (espressa in anni).
    Ciao

    • “nella vecchiaia il paradosso diventa la regola e lo scontato un’eccezione”: necessariamente.
      siamo portati a dimenticare, per il fatto che viviamo in una società per se stessa paradossale, che, dal punto di vista naturale, la vecchiaia stessa è un’eccezione e un paradosso…

      non sono sicuro che l’uomo moderno e neppure l’uomo in se stesso soffra di ipertrofia del sociale: a me sembra piuttosto il contrario; ma è la solita dialettica junghiana fra introversi ed estroversi, suppongo.

      come specie quella umana si pone a metà strada tra le specie individualiste (il gatto…) e quelle gregarie (antilopi o zebù).

      ho l’impressione di trovarmi davanti ad un Buddha molto “carlino”, ma lo conosco troppo poco per dare un giudizio definitivo… 🙂

  5. Caro Bortocal,
    Sul primo punto (vecchiaia) concordo.
    ipertrofia del sociale (interazioni complesse ed invasive).
    Non è un dato psicologico individuale/di gruppo, ma il prodotto del tipo di evoluzione che la nostra specie ha posto in essere (tramite il caso e la necessità).
    Ciao

    • caro Carlo, qui ci stiamo incartando mica male con te che dai ragione a me che do ragione a te… :), da bravi vecchietti entrambi, mi pare di capire…, ma ora provo a smuovere le acque.

      ipetrofia del sociale? integrazioni invasive? ma non è sempre il soggetto che decide quali integrazioni accogliere e quali no?? com’è che il soggetto definisce invasive le integrazioni che pure accoglie? la domanda è molto più importante di quel che sembra.

      da anni ho abbandonato totalmente la televisione; ne parlavo domenica con mio figlio che condivide, senza forzature mie, questa scelta, e condividevamo l’osservazione che è bastato questo rifiuto di una “integrazione invasiva” a darci, visibilmente, nelle relazioni sociali una visibile marcia in più e una spiccata autonomia di giudizio (forse si vede anche nel blog? ma so che non sarai d’accordo…).

      ma chi si sciroppa la televisione e la sua integrazione invasiva, lo fa per libera scelta, vero?

      tu però sposti il discorso addirittura sul piano biologico parlandone come una caratteristica di specie, e qui non sono affatto d’accordo con te.

      l’integrazione invasiva, a dirla così, in un branco di antilopi o zebù, in uno stormo di uccelli migratori, in uno sciame di api o di pesci o perfino in gruppo di leoni è molto ma molto più invasiva che nella specie umana…

      detta in altri termini, qualunque cosa voglia dire “intelligenza”, rende molto più autonomi.

  6. Caro Bortocal,
    ipetrofia del sociale? integrazioni invasive? ma non è sempre il soggetto che decide quali integrazioni accogliere e quali no?
    Essere nel mondo “(in der-Welt-sein”), gettato nel mondo, partorito, non per scelta, conseguente ad una maieutica innata, comporta all’inizio una dipendenza stretta dai primi interlocutori (genitori, sostituti dei medesimi, ecc.), che, senza se e senza ma, trattano i “cuccioli” come esseri inetti (condizione ineludibile). L’invasione di campo è intensiva e, come tu ben sai, condizionerà ineluttabilmente tutta la vita futura del nascituro (Imprinting: particolare tipo di apprendimento per esposizione, presente in forme e gradi diversi in tutti i vertebrati. Serve a fissare una memoria stabile delle caratteristiche visive degli individui da cui si verrà allevati (imprinting filiale) o degli individui con i quali è possibile riprodursi (imprinting sessuale). Per questioni di convenienza nella ricerca, l’imprinting è stato studiato soprattutto negli uccelli e, in misura minore, nei primati).
    La struttura psicologica si forma nel periodo in questione, con tutte le possibili devianze, rispetto ad una norma, codificata dalla società ospitante.
    In seguito se la persona, sottoposta al trattamento, maturerà un’autonomia progettuale, potrà “decidere” della propria vita (quali integrazioni accogliere e quali no). Tu, da quel che racconti, appartieni alla classe dei “fortunati” ed io pure (genitori responsabili ed alta scolarità). Per molti altri (qualche miliardo di persone) purtroppo le “cose” vanno diversamente. E, infatti, il mondo sta ruzzolando verso la catastrofe socio-ambientale.
    Sulla televisione sfondi una porta aperta. A tale proposito riporto uno stralcio di un’ intervista a Karl Popper:
    Domanda : Lei ha affermato che la televisione ha, specialmente per i ragazzi, il valore di un’autorità morale e che svolge quindi un ruolo educativo. Alcuni sostengono che questa tesi sia in contrasto con l’idea liberale, secondo cui non bisogna educare le persone, ma informarle. Lei pensa dunque che la televisione dovrebbe avere una funzione educativa?
    Risposta
    Penso proprio di sì. Credo che distinguere in questo caso tra educare e informare non è soltanto falso, ma decisamente disonesto. Mi dispiace doverlo dire. Non ci può essere informazione che non esprima una certa tendenza. E ciò si vede già nella scelta dei contenuti, quando si deve scegliere su che cosa la gente dovrà essere informata. Per fare questo bisogna aver già stabilito in anticipo che cosa si pensa dei fatti, decidere circa il loro interesse e il loro significato. Questo basta a dimostrare che non esiste informazione che non sia “di tendenza”. Bisogna scegliere, e il nostro intendimento determina la nostra scelta. Così, per esempio, Lei può chiedere a qualsiasi professionista della televisione di far parlare una persona frontalmente o di farla parlare di profilo: c’è una bella differenza! Tutto è il risultato di una scelta. Dire che esiste della pura informazione, come semplice trasmissione di fatti, è falso. Voi tentate continuamente di imporre il vostro punto di vista al telespettatore e non potete impedirvi di farlo. Perciò la distinzione tra educare ed informare non regge. Ma questa distinzione non è semplicemente falsa, essa risponde piuttosto ad un preciso obiettivo, perché permette di dire: “Noi siamo obiettivi, vi comunichiamo soltanto i fatti, i fatti come sono e non i fatti come vorremmo che voi li vedeste: i fatti semplicemente come sono”. Questo è falso! D’altronde si parla dell’educazione come di una imposizione necessaria. L’insegnante impone il suo punto di vista all’allievo, al ragazzo che deve essere educato. L’educatore è gravato da una grande responsabilità, mentre colui che informa, il “puro informatore”, pare che non ne abbia alcuna. Ma questa differenza non esiste. Se voi siete informatori responsabili, siete anche educatori. Ma se siete educatori irresponsabili, voi state trasgredendo le regole del gioco. Lei non può sottrarsi all’obbligo di educare. Lei come educatore ha una grande responsabilità e così pure la televisione ha una grande responsabilità. Io credo che la maggioranza dei professionisti della televisione non si rendano conto appieno della loro responsabilità. Credo che non siano capaci di valutare l’ampiezza del loro potere. La televisione ha un immenso potere educativo e questo potere può far pendere la bilancia dal lato della vita o da quello della morte, dal lato della legge o da quello della violenza. E’ evidente che si tratta di cose terribili! Lei mi dice che io difendo, contro l’ideale liberale, il fatto che le persone debbano essere educate e non informate. Questo ideale sedicente liberale è stato inventato “ad hoc” per non dover rivedere e trasformare il mondo dell’informazione. E’ stato inventato proprio e soltanto per questo. Non è stato mai veramente un ideale liberale. Il liberalismo classico sotto tutte le sue forme ha sempre accordato una grande importanza all’educazione e un’importanza ancora più grande alla responsabilità. D’altronde tutte le correnti del liberalismo classico hanno insistito sulla necessità di controllare il potere. Il miglior mezzo è quello dell’autocontrollo. Un certo autocontrollo ci deve essere in ogni caso. Ogni potere, e soprattutto un potere gigantesco come quello della televisione, deve essere controllato. La televisione può distruggere la civiltà. Che cos’è la civiltà? E’ la lotta contro la violenza. C’è progresso civile, se c’è lotta alla violenza in nome della pace tra le nazioni, all’interno delle nazioni e, prima di tutto, all’interno delle nostre case. La televisione costituisce una minaccia per tutto questo. La minaccia, beninteso, sarebbe peggiore sotto una dittatura poiché in questo caso ci sarebbe una vera manipolazione allo scopo di far accettare ai cittadini la dittatura. E come ha mostrato Orwell ciò può avvenire senza che la gente si renda conto di ciò che sta succedendo. In ogni caso non ha senso discutere sui pericoli potenziali della televisione. E’ sul suo potere attuale che bisogna riflettere e chiedersi se non sia male impiegato. Bisogna piuttosto domandarsi, in rapporto al potere attuale della televisione, se non sia mal impiegato. Io credo che questo avvenga spesso. La mia esperienza dell’ambiente televisivo mi insegna infatti che i suoi professionisti non sanno quello che fanno. Si pongono scopi del tipo “essere realisti”, “essere avvincenti”, “interessare”, “eccitare”. Questi sono gli obiettivi che si pongono esplicitamente. Ciò che misura l’arte, la tecnica di un uomo di televisione è realizzare tali obiettivi. Non ha coscienza della sua funzione educativa, non ha coscienza del potere enorme che esercita. Lei mi aveva posto la domanda: “Secondo la dottrina liberale l’individuo deve avere le sue responsabilità?”, le rispondo: tutto va bene finché si assume delle responsabilità e vi conforma i suoi comportamenti. Ma se diventa violento e aggredisce i suoi vicini deve essere punito. C’è una bella battuta sulla libertà, nata in un tribunale americano. Un uomo dice: “Sono un uomo libero e quindi posso dirigere il mio pugno in qualsiasi direzione”. Al che il giudice gli risponde: “E’ vero che lei è un uomo libero, ma il limite al movimento del suo pugno è il naso del suo vicino!” In due parole se vogliamo una società da cui, nei limiti del possibile, la violenza sia esclusa e punita solo in caso di necessità, il limite del vostro movimento è il naso del vostro vicino. Questo è il fondamento di una società civile. E’ una cosa semplice da definire. Ci sono due tipi di società: il primo è quello dove regna la legge, in cui la legge è introdotta e perfezionata gradualmente in funzione dei seguenti scopi: limitare, solo quando è necessario, la libertà individuale ed evitare per quanto possibile la violenza. Ecco il principio razionale che deve ispirare la legge. Il contenuto della legge deve essere semplicemente, come dicevo prima, che il naso del mio vicino segni un limite al libero movimento dei miei pugni, o meglio che quel limite sia stabilito a una distanza, diciamo di 8 centimetri , dal naso del mio vicino. Questo deve dire una buona legge. La seconda possibilità è il regno del terrore, il regno della violenza e della paura. Ne abbiamo vista troppa, in particolare sotto i regimi nazista e comunista. Milioni e milioni di persone hanno sofferto nei modi più orribili sotto il regno della violenza. Noi dobbiamo lavorare attivamente per contrastarlo. Perciò bisogna formare gli individui alla civiltà, influendo sulle loro aspettative. Questo è il mio progetto educativo.”
    Ciao

    • grazie della lunga citazione di Popper, filosofo che amo, e che dice delle cose, a differenza dell’Heidegger il cui lessico invece fumoso risuona nell’avvio del tuo commento.

      non volevo fare una discussione filosofica sul libero arbitrio: filosoficamente parlando, sono da tempo convinto (con qualche prova sperimentale) che ciò che chiamiamo scelta è solo una memorizzazione post factum dell’agito e che tutti noi non agiamo, ma siamo agiti; per chi scrive, del resto, questa esperienza è comune: la voce di una ispirazione, ad esempio, che guida le nostre parole, ma non appartiene al nostro io cosciente.

      essere agiti ed agire sono dunque una sola cosa: lamentarsi di essere agiti è come lamentarsi di agire, è semplicemente lamentarsi di vivere.

      oppure è soltanto un modo per teorizzare il proprio modo obliquo di vivere, che peraltro, filosoficamente parlando, non abbiamo deciso noi, anche se umanamente parlando ci appartiene come una nostra presunta scelta.

      e dunque perché questo tono lamentoso sull’imprinting, se questo è la premessa della vita stessa?

      è di vivere che intendiamo lamentarci? io no.

      ciao.

  7. Caro Borocal,
    condivido la tua replica, tranne una cosa: il mio tono sarebbe “lamentoso”. Come ho detto prima, mi ritengo fortunato. Constatavo i fatti.
    Ciao

    • il tono lamentoso, quasi leopardiano, l’ho riscontrato qui, ad esempio: “L’invasione di campo è intensiva e, come tu ben sai, condizionerà ineluttabilmente tutta la vita futura del nascituro”.

      però può ben succedere che una frase trascurabile per chi la dice finisca con l’avere in chi l’ascolta una risonanza emotiva non voluta dal dicente e per niente intenzionale.

      può essere un equivoco interpretativo, può essere la spia di un pensiero che è occulto a chi parla.

      ciao.

  8. Caro Bortocal,
    come tu ben sai, non esistono “fatti” ma solo interpretazioni dei medesimi. Qualificare come “ineluttabile” un evento, non comporta che esso sia tendenzialmente “disgraziato”, ma solo che si verificherà con “densità di probabilità” alta. Un grave in fisica, se lasciato cadere, “ineluttabilmente” finirà nel terreno sottostante, per la legge di gravità.
    Ovviamente tu non sopporti le persone “lagnose” ed io non posso darti torto. Il lagnoso, lagnandosi, denuncia inconsciamente una scarsa fiducia in sé stesso ed attribuisce al destino “cinico e baro” le colpe per le sue sconfitte.
    Ciao

    • nella parola ineluttabile sento l’etimologia latina: in-e-luctabilis, che non si può escludere con la lotta; in esso è implicita l’opposizione del soggetto e la sua sconfitta.

      ineluttabile aggrava emotivamente il concetto di inevitabile, che fa comunque trasparire il desiderio di evitare, anche senza prevedere l’opposizione attiva evocata da “ineluttabile”

      “condizionerà meccanicamente” avrebbe certamente evitato queste risonanze psicologiche, ma ne avrebbe introdotte altre; il meglio sarebbe stato dire “condizionerà”, e basta.

      e approvo tutto il resto.

  9. Caro Bortocal,
    giustamente hai messo in campo la tua interpretazione. L’interpretazione “autentica” (la verità) è parcheggiata nella mente di Giove. E ai comuni mortali, tu ed io, non è dato sapere. Comunque, buona giornata.

non accontentarti di leggere e scuotere la testa, lascia un commento, se ti va :-)

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