il neokeynesismo, Krugman e l’insensato salvataggio delle banche. – 259

30 maggio 2012 mercoledì 07:10
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Federico Rampini è forse l’intellettuale italiano che oggi preferisco: grande scrittore, ma anche grande giornalista, e soprattutto con una invidiabile proiezione internazionale che rende le sue analisi mai banali per l’Italia provinciale, a cui arrivano dalle diverse parti del mondo.

questa volta voglio commentare un articolo che dedica a Krugman, un economista americano premio Nobel in questo campo, e che lui definisce un “guru” della nuova sinistra, ma descrive anche come un uomo di straordinario successo pubblico:

Ressa da stadio, folla in delirio.

In fondo il tifo popolare se l’è meritato, questo (…) censore dei tecnocrati dell’eurozona, keynesiano a oltranza che osa spingersi dove altri non vanno.

La formula Krugman per uscire dalla crisi "Insegnanti e welfare contro la depressione"

per la verità, invece, a me il campo del cosiddetto neokeynesismo sembra molto affollato (basta guardare questa stessa piattaforma blog), ma adesso ditemi come posso azzardarmi a criticarlo, io che macino solo modestissime conoscenze economiche di base, quasi da autodidatta.

però riesco a farmi coraggio, quando leggo che

il suo blog è uno strumento di battaglia politica contro l’egemonia culturale della destra.

dai, allora siamo quasi colleghi, sia come blogger, sia come avversari del neoliberismo: faccio conto che sto semplicemente mandando al suo blog uno di quei commenti critici e sgradevoli che mi vengono così bene, peccato solo che non mi risponderà mai, neppure col traduttore automatico…

* * *

Krugman ha appena pubblicato, in Italia presso Garzanti, un libro intitolato “Fuori da questa depressione, subito!”, questo almeno in inglese, perché in italiano è stato tradotto “Fuori da questa crisi, adesso”, perché sia “depressione” sia “subito” sono stati giudicati un po’ troppo estremistici :).

intervistato da Rampini Krugman afferma:

Quella che attraversiamo la chiamo la Depressione Minore, per distinguerla dagli anni Trenta.

La differenza è meno sostanziale di quanto si creda.

Anche allora ci fu una prima recessione, poi una ripresa inadeguata, poi la ricaduta.

I tassi di disoccupazione reali di cui soffriamo non sono tanto inferiori a quelli di allora.

E se guardiamo al numero di disoccupati a lungo termine, che qui in America restano oltre i 4 milioni, siamo proprio a livelli da anni Trenta.

ma no, dai, me lo ricordo perfino io che i numeri della disoccupazione degli anni Trenta erano ben diversi; in ogni caso vado a controllare, ed ecco i risultati:

12 milioni negli USA, 6 in Germania, 3 in Gran Bretagna.

pazienza, è solo un dettaglio, che però serve ad introdurre il concetto principale:

Abbiamo bisogno che i nostri governi spendano di più, non di meno, perché quando la domanda privata è insufficiente, questa è l’unica soluzione.

ma adesso tocca a me.

* * *

professor Krugman, ma Lei ritiene davvero che ci sia stata una domanda veramente privata in tutti questi anni?

come possiamo definire privata una domanda che è sostenuta ampiamente dal credito bancario concesso proprio per allargare i consumi?

se nella domanda privata, ad esempio, rientra quella delle abitazioni, come non vedere che la domanda privata di case è stata sostenuta con mutui concessi da banche che direttamente o indirettamente facevano capo ai governi, allo scopo di mantenere artificiosamente alti i prezzi delle case e quindi far guadagnare alle banche stesse, attraverso gli interessi alti pagati sui mutui?

e allora ha senso continuare su questa stessa strada che ha portato al disastro?

* * *

ma Lei, professor Krugman, insiste su una ricetta che non posso considerare del tutto sbagliata, salvo che per un dettaglio che è invece il cuore del problema:

Assumere insegnanti.

Costruire infrastrutture.

Fare quello che fu fatto con la seconda guerra mondiale, possibilmente scegliendo spese utili.

l’idea di riprendere dal New Deal è appunto quella che le spese per investimenti (e negli investimenti per il futuro certamente rientra anche la scuola) dovrebbero essere considerate al di fuori degli obblighi di equilibrio del bilancio, sono d’accordo.

però, Krugman, non sembra del tutto d’accordo Lei con la sua stessa tesi, dato che sostiene che l’indebitamento solo possibilmente va destinato a spese utili.

possibilmente rispetto a che cosa, allora, professor Krugman?

con questo possibilmente noi siamo tornati alla politica neoliberista dell’indebitamento per alimentare i consumi privati che è l’origine di questa crisi.

* * *

ma se la risposta alla crisi è tornare a fare quello che si faceva sotto Bush o Berlusconi, allora perché è scoppiata la crisi?

dice Rampini, per fare da spalla:

Anche qui negli Stati Uniti 15.300 miliardi di dollari di debiti, quasi il 100% del Pil, sembrano un ostacolo insormontabile per la sua terapia keynesiana.

ecco come risponde Krugman:

Falso, falso anzitutto dal punto di vista storico.

In passato gli Stati Uniti ebbero un debito ancora superiore, durante le seconda guerra mondiale; la Gran Bretagna per quasi un secolo.

Il Giappone ha tuttora un debito statale molto più elevato in percentuale del suo Pil eppure paga interessi dello 0,9% sui suoi buoni del Tesoro.

Quindi non esistono soglie di insostenibilità come quelle che ci vengono propagandate.

* * *

questa risposta, se mi si consente, è un poco rozza: come ho recentemente compreso, il vero problema non è il livello assoluto dei debiti di uno stato, ma quale parte del suo debito pubblico è detenuto all’estero, da altri stati.

l’esempio del Giappone è illuminante.

il Giappone ha oggi un debito pubblico pari al 200% del suo PIL (rispetto al 120% del debito pubblico italiano); eppure il debito pubblico giapponese non rappresenta per lo stato un problema finanziario, mentre il debito più basso dell’Italia sì: e se il Giappone paga per i suoi titoli di stato meno dell’1% di interesse, l’Italia paga ben di più.

dov’è la soluzione di questo enigma?

nel fatto che il debito pubblico giapponese è detenuto quasi interamente da cittadini o aziende giapponesi, mentre una quota importante del debito pubblico italiano è di proprietà estera.

questo significa che se lo stato giapponese paga degli interessi sul debito statale, questi rimangono comunque all’interno del Giappone e circolano creando ricchezza; non esistono inoltre pericoli di scarsità di liquidità al rinnovo dei debiti a scadenza, e persino tsunami e incidenti nucleari non intaccano in modo sostanziale la possibilità dei giapponesi di sostenere la loro economia con i risparmi privati.

ma se invece una parte importante del debito pubblico di uno stato è detenuto da altri stati, come nel caso degli Stati Uniti con la Cina, che detiene una parte importante, credo circa un sesto, del debito pubblico americano, allora gli interessi su questa parte del debito escono dallo stato indebitato per arricchire lo stato creditore, e dunque costituiscono una perdita da rimpiazzare.

conclusioni: mica è vero che l’esempio giapponese o di altri dimostri che ogni stato può indebitarsi ad libitum.

* * *

anzi, quando uno stato  decide di indebitarsi con capitali stranieri la sua libertà di indebitamento, come per qualunque privato che si metta nella stessa situazione, cessa quando cessa la volontà o la possibilità dei creditori di concedergli questi crediti.

per esempio, la situazione finanziaria degli USA è resa oggi particolarmente precaria dalla crisi del mercato immobiliare cinese: se la bolla esplodesse, se il prezzo delle case crollasse a Beijing, le banche cinesi avrebbero perdite enormi, e non sarebbero più in grado, neppure volendo, di rinnovare i titoli di stato in scadenza degli Stati Uniti.

l’indebitamento con altri stati è dunque sempre una politica molto rischiosa.

semmai, si potrebbe dire, per l’Europa, che l’introduzione degli eurobond, facendo considerare finalmente l’Europa come un’area finanziaria unica e non solo come un’unica area monetaria, alleggerirebbe di colpo, per la sua stessa adozione, tutto il peso finanziario dell’indebitamento che i diversi stati dell’Unione hanno fra loro e quindi sarebbe una mossa davvero decisiva sui mercati finanziari.

* * *

Krugman prosegue a questo punto ripetendo, senza originalità, tutto il mantra del momento della sinistra mondiale:

Inoltre è dimostrato, e lo vediamo accadere sotto i nostri occhi, che in tempi di depressione le politiche di austerity aggravano il problema: accentuano la recessione, di conseguenza cade il gettito fiscale, così in seguito ai tagli il debito aumenta anziché diminuire.

La prima cosa da fare è cancellare l’effetto distruttivo dei tagli di spesa.

Per esempio, qui negli Stati Uniti, bisogna cominciare col ri-assumere le migliaia di insegnanti licenziati a livello locale.

Queste sono manovre di spesa dagli effetti istantanei.

In Europa, la manovra equivalente è restituire le prestazioni del Welfare State che sono state ingiustamente tagliate.

non faccio fatica a credere che Krugman abbia un grande successo con queste tesi: dice esattamente quel che ognuno desidera sentirsi dire: e cioè che basta smettere di pagare le tasse per far fronte ai debiti, e la crisi si risolve da sè.

chissà allora perché è scoppiata la crisi? – mi ripeto anche io – il motivo avrà forse a che fare col fatto che la massa globale dei valori finanziari che sono stati creati in questi anni è di diverse volte superiore al valore reale di tutti i beni del pianeta messi assieme?

il che in altre parole significa che le monete correnti hanno mediamente un valore reale che è solo quello della frazione corrispondente?

insomma, che tutti abbiamo in mano monete il cui valore reale va da un terzo ad un settimo del valore loro attribuito e che dovremmo adattarci ad un tenore di vita corrispondente ad una simile riduzione?

qui mi fermo, perché questa è una affermazione da brividi, considerando che in Italia e in genere nei paesi avanzati vi è almeno circa un terzo della popolazione per cui il reddito attuale è ai limiti della sussistenza e che, semplicemente, morirebbero di inedia se non proprio di fame, se dovessero sopravvivere con un terzo del loro reddito attuale.

e dunque si pone un problema serissimo di redistribuzione del reddito, per evitare un totale collasso sociale.

* * *

ma se un economista è un monetarista sarà sempre convinto che la crisi possa essere risolta con strumenti finanziari, indifferente al fatto che invece, marxianamente, è prima crisi economica e produttiva e solo secondariamente assume la forma di crisi finanziaria.

come insegna Marx, la crisi nasce come crisi di sovrapproduzione: ed è oggi quella dei paesi occidentali che non riescono più a reggere la concorrenza dei paesi emergenti e a collocare lì i loro prodotti.

è questo che rende le loro monete meno credibili, e il problema della sovrapproduzione non si risolve stampando carta moneta, anzi!

* * *

ma Krugman non condividerebbe di certo questo modo di impostare la questione:

Guardate cos’è accaduto all’Irlanda, cioè a un paese che si può considerare l’allievo modello, il più virtuoso nell’applicare le ricette dell’austerity volute dal governo tedesco.

L’Irlanda ha avuto una finta ripresa e poi è ricaduta nella recessione.

All’estremo opposto ci sono quei paesi asiatici, dalla Cina alla Corea del Sud, che hanno manovrato con energia le leve della spesa pubblica, e così hanno evitato la crisi.

già, peccato solo che Cina e Corea del Sud abbiano industrie forti e competitive che esportano in tutto il mondo, e l’Irlanda no: è questo il trascurabile dettaglio relativo alla “struttura” economica di questi paesi che Krugman, da monetarista, non considera.

paesi come l’Irlanda o la Grecia sono in gravssima difficoltà non perché seguono le ricette tedesche, ma perché hanno seguito le ricette neoliberiste e hanno costruito un benessere economico di carta, tutto fondato su un credito internazionale, e neppure interno, non sostenuto da una base produttiva adeguata.

di qui la loro insanabile difficoltà ad uscire dalla crisi, di cui le ricette dell’Unione Europea sono la manifestazione e non la causa, così come la causa dell’influenza è il virus, non la Tachipirina, e non si guarisce smettendo di prenderla.

* * *

il modello di Krugman per uscire dalla crisi è l’Islanda, e qui finalmente ci ritroviamo d’accordo, perché anche per me è lo stesso:

276. Argentina, Islanda, Ucraina: storie di ordinario default.

334. modello Islanda, modello Malesia (la risposta alla crisi).

Perché dopo la bancarotta ha avuto il coraggio di cancellare tutti i propri debiti con le banche, negare i rimborsi, ed è ripartita dopo una svalutazione massiccia.

ma con questo siamo arrivati davvero al cuore del problema, perché l’Islanda fornisce la prova provata in un piccolo laboratorio marginale di quale sia la vera ricetta da perseguire per gestire la crisi finanziaria: che non è affatto quella che ha detto Krugman prima, cioè di allargare il debito pubblico, ma di cancellarlo.

l’Islanda citata da Krugman come esempio non ha affatto seguito la ricetta economica di Krugman, ma ha fatto l’opposto.

citando l’Islanda, Krugman ha posto come modello una politica economica per nulla neokeynesiana, anzi antitetica al neokeynesismo: che non se ne sia accorto?

* * *

l’errore fondamentale compiuto da chi governa il mondo in questo momento non è porsi il problema del debito, ma porselo per salvare le banche, che bisognava lasciar fallire fin dal 2008.

e faccio un altro esempio: la Spagna in questi giorni.

per fare fronte alla crisi di molte piccole banche locali, qualche tempo fa lì il governo ha creato Bankia dalla fusione di sette banche regionali.

il risultato è stato che questa nuova superbanca è a sua volta in crisi e a luglio 2011 il valore del suo titolo si era già quasi dimezzato; ora la Bankia ha a bilancio circa 32 miliardi di euro di prestiti e investimenti che potrebbero non rientrare in cassa e ha chiesto urgentemente al governo 19 miliardi di euro per non fallire; ma poi ci sono altre grandi banche ugualmente in crisi.

eppure il governo spagnolo è già intervenuto in soccorso di Bankia poche settimane fa, con 4,5 miliardi di euro, e di fatto ha nazionalizzato l’istituto di credito, assumendone quindi le perdite, secondo la vecchia malsana politica, che ha devastato anche l’economia italiana del dopoguerra, di socializzare le perdite e privatizzare i profitti.

siccome la Spagna non può farcela da sola, ecco che si comincia a pensare che sia necessario un salvataggio orchestrato dell’Unione Europea, che sarebbe molto più costoso degli aiuti sinora prestati alla Grecia.

si fa fatica pensare che questa è semplicemente la strada della rovina generale?

* * *

Grecia, poi Spagna, poi Italia, resa debole dalla quota estera del suo debito pubblico: vittima successiva con conseguenze inimmaginabili non solo per l’Europa, ma per l’economia mondiale nel suo complesso.

è qui che la ricetta Krugman non funziona più e ne occorrono altre ben più radicali.

di tipo islandese appunto.

cioè occorre andare incontro al fallimento delle banche e, se occorre, anche degli stati, usandoli come strumento positivo per spezzare i vecchi equilibri finanziari e sociali e costruirne di nuovi, che comprendono anche una nuova economia della austerità virtuosa e creativa che diminuisca nel loro insieme i consumi, migliorando per giunta la qualità della vita.

3 risposte a “il neokeynesismo, Krugman e l’insensato salvataggio delle banche. – 259

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