città senza cuore. – 522

21 ottobre 2012   domenica  07:57

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questo è un post su commissione.

ha scritto intesomale sul suo blog:

facciamo anche noi come ha fatto lei, ognuno con la propria città, anche doppioni, che importa?

qualcuno ha protestato nei commenti:

Non sono capace di scrivere a comando.

io no, per anni non ho fatto (non abbiamo fatto altro, tutti) che scrivere a comando, a scuola; e il mio lavoro attuale è quasi soltanto la continuazione di quello scrivere a comando; i quattro anni che ho lavorato gratis in un quotidiano gestito da una cooperativa ho scritto spessissimo a comando, era anzi molto raro che il giornale accettasse un articolo scritto di mia iniziativa, non faceva parte delle regole del gioco.

ho però una difficoltà lo stesso: devo scrivere della mia propria città, ed ecco a interrogarmi quale sia, evidentemente non sono monogamo neppure con le città.

farà lo stesso se scrivo che tre città intorno al cuor mi son venute?

* * *

Merano-Meran, le palme in riva al torrente Passirio fra montagne che salgono fino a 3.000 metri, vedevo le cime e le pendici coperte di ghiaccio al risveglio la mattina nella mia infanzia, uscendo tremando dal letto nella camera non riscaldata: anni Cinquanta.

mi hanno insegnato a cercare la nitidezza dei pensieri, forse, ma una nitidezza con sapore di cuore ghiacciato.

la casa era lontana dal centro magico della città e dalla sua atmosfera: Meran, che allora chiamavo semplicemente Merano, è una delle città più belle vorrei dire d’Italia, ma forse sarebbe meglio dire d’Europa, perché è la penultima città tedesca, o meglio tirolese, sulla strada per l’Italia, e mescola con una strana dolcezza le due culture.

ma io che ne sapevo?

per me era l’odore delle mele sul viale della stazione e dappertutto: allora erano in mezzo ai meleti i due chilometri che si facevano rigorosamente a piedi per raggiungere il centro, cioè il fiume, i giardini, il Kursaal, la nicchia per i concerti all’aperto tra lo scroscio delle acque vicine, la passeggiata d’estate e quella d’inverno, le sculture vegetali di piante potate e fiori, la gola con l’orrido ingolfato di spruzzi, le gare di canoa, il ponte romano, le porte rimaste delle perdute mura medievali, la seggiovia che saliva a Tirolo, dove un castello romano-gotico si leva su piramidi di terra: tutto questo esotico mondo paragermanico, le case con le facciate a scalette, il castello mignon dove si svolgevano nei secoli passati feste mostruosamente sproporzionate alle sue dimensioni da libro di favole, annidato in un angolo nascosto dietro i portici, dove si poteva leggere nelle Stuben il quotidiano Dolomiten incastrato in un leggio di ferro e scritto in gotico, il negozio di giocattoli con le costruzioni di legno colorato, i vecchi portoni sulla strada che portava alla scuola in via Vigneti, il monumento di Sissi, che io neppure sapevo chi fosse, le salite a Maia Alta nelle ville luminose, dove era nascosto Ezra Pound, e da cui si poteva vedere la chiesetta di santa Caterina di Avelengo, paese ancora favoloso, raggiungibile solo con la funivia allora oppure a piedi per un sentiero tra i boschi lungo 12 chilometri, che una volta percorsi sospirando con mio padre.

tutto questo era la mia normalità, allora, interrotta, traumaticamente a tredicianni dalla sparizione – cui non ritengo estranea mia madre – del gatto di casa, e dal contemporaneo trasferimento a Brescia, che avvenne su un intero vagone di masserizie varie (questo passava l’esercito e non altro agli ufficiali che andavano in pensione) che scaricò tutte le nostre cose ai piedi di un condominietto allora di periferia, in una strada ancora non finita e non asfaltata, sotto 5 piani di scale e una terrazza dalla quale avrei potuto ammirare Brescia.

* * *

se non fosse arrivata così presto quel mostro sconosciuto sino ad allora che era la nebbia padana degli anni Sessanta.

nella nebbia la terrazza era sospesa nel vuoto e le torri del castello sulla collina diventavano una pura grigia immaginazione; la solitudine aveva battuto i suoi colpi nei mesi estivi, trasformando in vizio occasionale la tentazione della scrittura già emersa a Merano, prima che il ginnasio mi regalasse qualche nuovo amico: gente piuttosto chiusa, e neppure questo sapevo, che erano monche le conversazioni adolescenti, le fantasie desideranti, la filosofia scagliata contro i muri dell’impossibile che non mi sono più levato di dosso.

Brescia restava un esilio, il bisogno di tornare alla mia città vera, a Meran, che avevo imparato a chiamare così, adesso, mi faceva tentare strane fughe, il mio primo viaggio da solo a 18 anni fu lì, a ingozzarmi di gelati, a ripassare così giovane i meandri della memoria, a scoprire che erano bastati 5 anni di assenza per rovesciare tutte le carte e iniziare una nuova partita, dopo molte altre, dalle quali ero escluso, assieme a chi era già morto.

escluso ero anche da Brescia, considerando che ci trasferimmo nella bella zona dei Ronchi, una collina da cui la città si guarda dall’alto, con una specie di aristocratico distacco, che non mi sono mai tolto di dosso.

quella fu la casa della vita familiare, senza interruzione della famiglia di origine, e poi, passando attraverso i necessari ma atroci riti di morte, anche della mia famiglia nuova e dei miei figli; ma restavo legato alla casa di Meran.

quella casa mi parlava, ogni lustro tornavo a vederla, ed una volta cominciò a lanciarmi degli appelli interiori, mi gridava di andarla a salutare, dovetti aspettare l’estate, ma quando, deciso a fotografarla per la prima volta,  tornai nel grande viale dei platani che era stato pieno di maggiolini in primavera, scoprii che era stata appena demolita, ero arrivato troppo tardi: al suo posto un complesso che aveva lasciato intatto, con i suoi vecchi cancelli, solo il muro di recinzione.

* * *

Brescia divenne davvero la mia città solo nel 1988, al momento della separazione che mi portò a vivere in centro, o meglio in quell’altra città segreta che a Brescia è una città nella città, o meglio un’anti-città nel cuore (se Brescia ne avesse uno uno) della sua storia.

il Carmine, al quale dedicai subito il mio unico libro pubblicato sinora (ma sotto pseudonimo, scritto a quattro mani con un mezzo pazzo che credevo amico e che poi cercò di farmi del male), era il cuore proibito della trasgressione e del male: quartiere di ladri di biciclette e di puttane, nel quale era interdetto entrare ad un ragazzo figlio di una borghesia perbene; ed avevo rispettato il divieto fino ad allora.

era anche quartiere di osterie, di risse avvinazzate, di palazzi bellissimi e decrepiti: vivevo in un palazzo del Cinquecento quasi completamente marcito e devastato da frettolose speculazioni e avevo di nuovo una terrazza da favola sotto il Castello e dietro la quinta del retro di una facciata di chiesa barocca, sotto un campanile sovrastato da un gallo longobardo di bronzo.

la vita diventò di colpo tumultuosa: la dirimpettaia faceva l’amore con le finestre spalancate d’estate e riempiva di grida la strada, i gatti camminavano interrogativi sui tetti, il ragazzo che faceva l’imbianchino e abitava due porte più in là una sera si sparò in bocca, perché aveva litigato con la ragazza ed era troppo impasticcato, oggi forse l’avrebbe accoltellata, un handicappato sempre in pantaloni corti anche d’inverno portava a spasso tutti i giorni in vestaglia una mamma piccolissima novantenne e con l’Alzheimer.

inquieto, anche io cominciai a cambiare casa (ne avevo comperato e ne andavo comperando accumulando debiti che dovevano ripagarsi da soli): feci il giro di tre appartamenti nel palazzo che sia andava costosamente restaurando e oggi esibisce dei soffitti a cassettoni con fregi di oro zecchino che erano stati contromurati, la strada divenne in pochi anni elegantina e fighetta, si aprì l’università nel convento adiacente, il sindaco di sinistra autorizzò una sopraelevazione mostruosa che tolse mezza veduta alla mia terrazza.

il Carmine si restringeva: dopo la strage fascista di mezzo quartiere demolito negli anni Trenta per fare spazio alla Piazza della Vittoria e alla statuona di Mussolini, che il popolaccio aveva ribattezzato “il Bigio”, la borghesia rampante degli anni Novanta lentamente lo erodeva traformandolo in un luogo elegante ed elitario; e io mi spostai fino alla sua strada più autentica e maledetta, dove ancora si rubano le biciclette, piena oramai quasi soltanto di pakistani e senegalesi che rumoreggiano davanti ai portoni dei nobili palazzi, da cui le antiche famiglie escono solo con il SUV: la via delle Battaglie, già Contrada delle Maioliche.

è la città in cui vivo, questo Carmine, che mi vuole bene a modo suo, senza dirlo troppo, ma in maniera visibile al momento giusto, ma che mi rimane addosso con un senso di estraneità soffocato, anche se questa città mondiale, con i suoi 155 popoli diversi nel territorio della parrocchia, è quanto Brescia può darmi di più simile a me, e ancora più me lo dà ora che si è andata trasformando nella piccola Montmartre casereccia, con le sue strade dalle vedute meravigliose di torri e cupole, le bandierine buddiste a qualche balcone, gli internet point gestiti da arabi e da sorridenti indiani, i parcheggi di bike sharing per girarsi la città pedalando, le macellerie islamiche, le periodiche urlate manifestazioni di immigrati per il permesso di soggiorno organizzate dal centro sociale che ha la sede a 50 metri da casa mia, o i bambini colorati che vanno alla scuola elementare, le donne esotiche che passano avvolte nei sari e il negozietto africano proprio sotto casa dove campeggia ogni giorno seduta immobile come un grande ragno colorato una matrona avvolta in una seta azzurra a fiori ed è puro Senegal senza neppure la fatica del viaggio.

del resto all’angolo ecco la gastronomia senegalese, e poi, basta scavalcare il corniciaio, ecco i negozietti di kebab.

ma il Carmine, ho scoperto con una specie di dolore, tornandoci, è diventato di moda: i localini trasgressivi dove si fa musica d’avanguardia o si organizzano mostre controcorrente, come quella degli artisti cinesi di protesta che mia figlia ha contribuito a far arrivare dalla Cina, eccoli al centro di una movida serale di avvinazzati e indolenti, che si insinua oramai fin quasi sotto casa mia.

* * *

quando finì la sequenza da film dell’orrore degli ultimi strascichi giudiziari impiantati dalla mia tumultuosa storia di separazione e divorzio, una tragedia personale durata 15 anni, che non mi ha tolto la gioia di vivere, ma ha certamente incupito il mio pensiero, ma per fortuna soltanto quello,  ecco che nella mia vita entrò Stuttgart-Stoccarda, grazie ad un concorso vinto al momento perfetto, due mesi dopo il lieto fine di una assoluzione in Cassazione con pieno ed esplicito risarcimento anche morale e scolpite come su pietra le mie buone ragioni di padre attento ed affettuoso.

ma Stuttgart era la mia legione straniera cercata per dimenticare: questa città dove arrivai il giorno della cattura di Saddam col maxischermo della Hauptbahnhof che trasmetteva le sue immagine di dittatore infangato e spaurito, io con un collare ortopedico da  tamponamento che mi muovo a piedi nella città grigia ed acquosa, priva di ogni fascino italiano (ma io allora non lo sapevo ancora che ogni popolo ha il suo fascino particolare) e vengo fermato dalla polizia perché sto camminando in una galleria non pedonale e poi accompagnato con un sorriso al luogo dell’appuntamento.

neppure Stuttgart è la mia città del cuore: anche se continuamente rinnovata, e attraversata da una trasformazione molecolare che le ha regalato in meno di un decennio il nuovo Museo dell’Arte nella piazza principale, la Schlossplatz, la nuova biblioteca, le sta regalando la nuova stazione per la TAV, sta vedendo la demolizione di due interi quartieri del centro, e dunque fascinosa prima di tutto per il suo dinamismo funzionale, che continua a migliorare la sua qualità di vita già abbastanza incredibile così per gli standard italiani.

eppure la bellezza tedesca di Stuttgart alla fine mi ha convinto, la prossima settimana ci ritorno a farmi un poco di ferie tedesche: la sua struttura ad arcipelago immersa nei boschi, la sua vicinanza alla Foresta Nera, con i paesi termali e le loro passeggiate, di cui alla fine ho scoperto che Meran era solo un adattamento quasi italianizzante, l’efficienza delle sue 20 linee di metrò, tra pesante e leggero, gli spazi sconfinati dei suoi giardini reali che disegnano un lento anello dove camminare per chilometri dimenticandosi di essere dentro la città, le sculture estrose e bizzarre dove accorgersi del peso del conformismo estetico di noi italiani, le finte cascate tra le rocce del Friedrichsbau oppure la statua del pensatore lì davanti, che si tiene la testa fra le mani, ma ha dimenticato il corpo da qualche parte, i tre anni di manifestazioni contro la TAV con decine di migliaia di persone in piazza ogni venerdì, il verde delle colline che si affaccia al fondo di ogni strada, la torre della televisione che ha precorso i tempi e i tramonti, le mongolfiere che a volte arrivano dall’ex fabbrica Zeppelin di Friedrichshafen, il mio monolocale all’undicesimo piano del grattacielo più alto (ma non troppo alto) dal quale guardo i napoletanissimi fuochi d’artificio nei miei capodanni solitari.

Stuttgart, mia città ancora provvisoria, perché luogo di nascita del mio blog e punto di partenza dei miei viaggi.

Stuttgart dove la gente ti insulta se da pedone passi col rosso al semaforo e non c’è nessuno, ma ti vede un bambino, e dove ho imparato ad adeguarmi come potevo all’etica tedesca, e dove i giardini che stanno venendo distrutti per la nuova stazione e ci hanno dormito decine di contestatori anche le notti d’inverno sugli alberi, la domenica si riempiono di feste popolari di etnie diverse: Stuttgart mi ha insegnato ad essere cittadino del mondo.

* * *

e allora Stuttgart sintetizza per me tante altre città che sono diventate la mia patria mentale in questi anni in cui sono andato a conoscerle partendo dalla mia base tedesca, anzi sveva, e dei loro colori ho riempito blog ed You Tube, e lasciate che provi a ricordarle, come se fosse un elenco di persone amate e perdute, ma non nel fondo del cuore:

Istanbul, la metropoli lunga 130 chilometri adagiata in un respiro continentale e traversata da mille navi che sono mille richiami d’amore

Damasco, la pluriculturale, multietnica, allora tollerante e sarcastica città che sapeva vivere la libertà nella dittatura

Sanaa, un sogno sospeso di uomini che masticano il chat indossando pugnali d’oro entro la cerchia magica delle sue mura intatte sorvolate dai falchi

Asswan, un gioiello incastonato nell’oro del deserto, che attende i messaggeri dai monasteri sepolti nelle sabbie o dalle grotte che nascondono i segreti degli antichi saperi

Mumbai, la porta dei sogni sospesa tra due diverse visioni del mare e l’isola di Elefantina con il suo tunnel spaziotemporale che ti porta dentro un romanzo di Salgari

Delhi, la vitale, travolgente, musicale metropoli dai mille volti, ma quello più vero è quello dei suoi ragazzi danzanti

Kathmandù, ma più ancora l’appartata e silenziosa Bakhtapur, con i suoi morti che, induisti o buddisti, bruciano silenziosi sulla riva del fiume

Kolkhata, la limpida festosa calunniata città che racconta la vita di un fiume che si chiama storia

ma poi, che cosa potrò raccontare di Varanasi, Bubaneshwar, Mamallapuram, Kanyakumari, Kochin, Nasik, Agra, a quale angolo dell’India vista senza confini sto certamente facendo torto?

non citerò né Beijing né Shanghai, città diversamente espressione del potere, politico ed economico, ma fatemi dire il mio amore per Hangzhou, l’isola nell’acqua che è anche acqua nell’isola ed è la più allegra città della Cina che io abbia conosciuto, piena di arte e musica

fatemi dire di Sidney, la città fiordo che ti regala l’oceano e il passaggio delle balene

fatemi dire di Leptis Magna, la città intera che sfida il tempo con la sua bellezza immobile e perduta

non fatemi dire di Praga, la Praga del 1986, perla strappata al tempo della modernità, oppure Granada la luminosa, non fatemi dire Tangeri la sinuosa incantatrice di serpenti, e neppure Fez o Meknés, l’incompiuta con i suoi nidi di cicogne

fatemi ricordare l’Italia nascosta degli anni Trenta e della sua art deco che sta sull’arido altopiano di Asmara 

fatemi dire per ultima Addis Ababa, con i suoi 36 studenti freschi di fucilate alla schiena, i proiettili incastonati sulle pareti delle strade e le povere madri avvolte nei sacchi di plastica nera coi loro figli, respiranti ancora fino al giorno dopo, ma già in attesa dei camion della spazzatura.

38 risposte a “città senza cuore. – 522

    • ciao, patrizia: stavo per chiederti se non poteva farti velo la conoscenza personale, poi intanto è arrivato anche il giudizio di intesomale, che non mi conosce, e sono già pago di questi due, preziosi.

      come procede il tuo romanzo?

  1. il tuo post – dicevo – è stupendo. Perché attraversa anni, noi siamo stati capaci di cogliere atmosfere, tu hai colto pezzi di storia… e in aggiunta a questo tuo vantaggio “naturale”, hai tirato fuori qualcosa di profondamente umano, soprattutto nella parte centrale, che ha condito la tua prosa di qualcosa di nuovo, d forte… qualcosa che chiamerei prima persona “vera”. Una lettura interessante, fatta prima di sbucare dal letto, tardivo, domenicale, della mia stanza milanese, riscaldata, pigra, lontana dai tuoi ricordi.

    • ci vuole una vita quasi intera alle spalle per scrivere di ricordi che diventano il tuo presente impastato.

      non ci sarò a leggere i tuoi post, quando avrai anche tu il tocco della memoria profonda dentro la tastiera, e sarà un peccato.

      neppure io mi sono ancora quasi alzato dal letto, ma mi pare che il momento sia arrivato…, buona domenica, e grazie.

  2. è stato un commento un pò proiettivo, perchè sono mesi che ragiono e faccio affluire empaticamente il rapporto con la mia cittadina. Inoltre ieri con i bambini ho trattato quello per quanto li riguarda (dopo scrivo un post su di loro).
    Quando l’enorme materiale inconscio e storico in te trova l’equilibrio con una forma scorrevole, diventa una scrittura folgorante.
    del romanzo ti parlerò per mail. sono sempre in tempesta 🙂

    • volendo, il fatto che la tua città di riferimento sia una paese terremotato che si sta ricostruendo potrebbe avere a sua volta una forte valenza simbolica.

      “uscivo dai troppi terremoti della mia vita e ho trovato un sisma vicino a me,; scoprii di stare bene in mezzo ai profughi dalle loro case distrutte che lentamente ricostruivano la loro vita, come io stavo ricostruendo la mia.

      come sempre la sventura e l’ottimismo nel contrastarla affratellano”.

      secondo me la genesi del tuo romanzo sta in qualcosa del genere…

      baci.

  3. Complimenti per il post 🙂 davvero bravo 🙂 mi è sembrato di vederli i tuoi luoghi 🙂
    C’è città e città. E il mio cuore non si riconosce nel cuore della mia città. Non mi sono mai sentita protetta dalla città e la mia città non è mai stata la mia tana. Ho sempre avuto paura delle sue leggi e sono rimasta esposta al vento della solitudine. Non sono diventata narcisista e mi sono salvata dal gregarismo. Ma ho sempre desiderato di averne una. E ho sempre desiderato di avere una buona stella sulla mia testa.

    • temo che sia una bravura… inconsapevole, eh eh.

      mi colpisci quello che dici della città: neppure io ne ho una, ma solo frammenti di diverse città: immagini con cui mettersi in rapporto; ma questa immagine ci è necessaria: la città è la prima immagine del mondo che conosciamo da bambini.

      però non ho mai pensato alla città come a un luogo che dovesse proteggermi, semmai il contrario…, vedi che megalomane? 🙂

      non mi sento meno solo di te, ma non chiedo altre stelle sulla mia testa che quelle che posso vedere alzando gli occhi al cielo.

      e so che la solitudine è il prezzo che spesso si paga alla mancanza di spirito gregario,

      • “La città è la prima immagine del mondo che conosciamo da bambini”, forse sta qui la chiave di tutto.Il distacco dalla propria terra di infanzia è come se la volta celeste abbandonasse la linea dell’orizzonte e si staccasse dalla terra.Ho provato questo quando da bambina mi portarono via dai nonni e dal mio cane e dai miei fiori.

        • ed ecco che proprio allora venne meno l’idea di città e nacque l’idea che la città dovesse proteggerti…

          il mio distacco invece colpì una mente adolescente già abbozzata e determinò conseguenze diverse…

  4. Non vale! Intesomale aveva detto una cartolina. La tua non è una cartolina ma un libro di viaggio! Scherzo vero 🙂 Bellissimo post.dove si riesce a respirare qualcosa che va oltre il personale. Qualcosa che è un filo magico di storie e di realtà.

    • forse è una cartolina di formato panoramico? 🙂

      grazie dei giudizi, e portami un bacione a Firenze (ma non a Renzi, anche se ha chiuso alle auto il centro storico…).

  5. ah no, la mia città non è terremotata, si poggia su un surreale confine con i villaggi disastrati, come per un miracolo, una grazia ricevuta. Non sono vissuta fra i terremotati abbastanza per diventare una di loro. Tu sai bene che mi ricostruisco in continuazIone, e spesso mi decostruisco. vedremo…

  6. dopo tante lodi, per spirito da bastian contrario mi verrebbe da dirti che il tuo post non mi piace affatto… ma mentirei!
    sai cosa mi piace veramente? quel faticoso tragitto personale che tracci su ogni città tramite le tue personali vicissitudini, per sentirti veramente “a casa”, quel sentimento dolce e amaro al contempo su ognuna di esse….
    mi piace, anche perchè lo risento molto bene (specie pensando alla recentissima Arusha)

    • non so se può confortarti, ma rileggendolo a distanza di 36 ore, scioltasi la tensione un pochino narcisista che aveva portato a scriverlo, sono io che comincio a trovargli molti difetti.

      fai passare qualche giorno e magari lo demolisco del tutto.

      conosco bene questo meccanismo in me: è lo stesso che non mi ha mai lasciato finire un romanzo dei pochi tentati e che mi impedisce radicalmente di pensare che pubblicherò mai qualche cosa…

      grazie dell’apprezzamento, comunque: ho visto che anche tu hai finito col parlare di tre città diverse…

        • no, patrizia, in questo momento non mi ricordo a che cosa ti riferisci, :(, ma non è un personaggio del tuo romanzo, vero?

          – e poi chissà se anche io divento invidioso di me stesso, non sentendomi all’altezza di qualche momento magico che mi ha attraversato quasi per sbaglio.

          • parlavo del commento di redpoz….non hai sufficiente naricisismo scrittorio come sempre!!!!!

            ah ahahah 🙂 il produttore di violini era quello che mi disse leggendo una sola mia riga che non avevo uno stile mio 🙂 solo peccato lui non sapesse scrivere, ma fare violini (che poi non è un’attività malvagia)
            e dal quale tu mi avevi messo in guardia subito, che ancora non mi aveva fatto quasi niente.
            stasera ho scritto bene, gioia quasi mistica
            uao.

            • ah sì, ricordo benissimo il personaggio: non ricordavo che facesse il costruttore di violini.

              così maldestro con le sviolinate, o meglio così balordo da cercare di costruire un rapporto con una donna a partire da un tentativo di umiliarla.

              rivelandosi, oltretutto, subito un incompetente.

              sono felice del tuo entusiasmo di autrice: ne verrà molto di buono.

              non credo di mancare del narcisismo dello scrittore, credo di averne troppo, e l’effetto paradossale è l’insoddisfazione perpetua di quel che scrivo (oh Salinger, oh Kafka, oh Vergilius… 🙂 🙂 :))

          • caro red, mi scuso di intromettermi perché credo che questo tuo commento sia mandato a patrizia, questo “tema” grafico impagina i commenti in modo così bizzarro che bisognerebbe abituarsi, e dovrei farlo io per primo, a premettere ad ogni commento @ destinatario.

            patrizia ha parlato di invidia solo per metafora e sullo stesso registro le ho risposto io, non prendere il suo commento come una critica a te, ma come una forma di incoraggiamento a me: patrizia ed io ci conosciamo via blog, e non solo, da sette anni, e lei sa già del mio rifiuto di pubblicare, per i motivi accennati in qualche commento: mi ha sempre criticato per questo, con affetto, e voleva semplicemente continuare a farlo.

            no problem, ok? 🙂

    • vale anche per bortocal,
      non so perchè presumete tutta questa permalosità da parte mia…. non ci siamo neancora incontrati!!!! lol
      no, traquilli il mio commento di risposta era solo perchè non capivo il senso di quello di Patrizia.
      nessuna offesa né percezione di critica (non l’ho proprio capito!!!!!!)

      • perfetto così, direi… 🙂

        se ti interessa. Arbia, cancelliere della Corte Penale Internazionale (International Crimin Court), cioè del Tribunale Internazionale dell’Aja, sarà a Brescia verso l’8 o il 9 novembre e potrebbe essere appunto l’occasione per salutarci.

        ti scrivo più avanti via mail i dettagli se occorre.

        • sembra interessante, ma temo sin d’ora che sarò molto impegnato in quei giorni….
          sempre che non coinvinca il capo a spostare l’appuntamento, ma la vedo difficile

          • Sono contenta un po’ d’acqua al nord . Qui molta foschia ,neppure una goccia d’acqua. Ho trascorso 3 giorni con le nipotine, vivo momenti di relazioni famigliari importanti, ma non scrivo . Ogni età presenta la sua complessità, non è semplice neppure essere giovani ,se ci si impegna. Mi fa piacere
            che scrivi molto tu . In compenso io ho cucinato abbastanza la soddisfazione è l’alto gradimento dei piatti . Mi sto chiedendo quando andrai a quell’appuntamento poco simpatico… Ti scriverò in privato
            Buon riposo 😚

            • sì, l’acqua c’è, per fortuna, ma le temperature sono 20 gradi di più che cinquant’anni fa, quando a questo punto dell’anno nevicava e c’era il ghiaccio per le strade.

              non ho ancora acceso il riscaldamento, e siamo in mezza montagna!

              (vero che non sono freddoloso come giomag59 e a me 17 gradi e un maglioncino bastano: sono i vantaggi dell’infanzia trascorsa in Sued Tirol!).

              facciamo passare anche i primi sette giorni del mese prossimo, per l’appuntamento; qui intanto non ci pensa proprio: la logistica è pronta…

  7. Fantastico il tuo viaggio nel tempo e nei posti vivi in te, cuore e mente. Incantata ho viaggiato anch’io …
    Sono stata assente dal blog ,ho dato solo un’ occhiata furtiva ma utile a pochi articoli . Ti abbraccio buon sabato 😉😘

  8. Le temperature sono superiori alla media . Certo che ti ha temprato . Era tanto freddo, andavo tutti gli anni In sud Tirol , sin da giovane avevo sui 30 anni . Sono stata anche in Austria , Silian e dintorni ,in aprile c’era una lastra spessa di ghiaccio . Mia figlia allora aveva una stübe eccezionale scaldava casa benissimo in più era bella .
    Quattro anni fa mi trovavo a Antholz una notte fece una nevicata era la seconda metà di luglio . Poi la neve si sciolse ,però aveva imbiancato tutto . Ero da mia figlia , in agosto tornai con il nipote più grande.

    Ho capito per te tutto è predisposto . Va bene così 😉

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