5 gennaio 2013 sabato 21:18
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ritorna R.R. per la conclusione della cronaca del suo viaggio estivo in Israele, che era rimasta sospesa, poco dopo il suo arrivo a Gerusalemme, con questo post: R.R., il suo Israele, 11. Jerusalem. Oltre la Porta Aurea (l’insieme dei post col resoconto completo del suo viaggio si può leggere inserendo “R.R.” in “Search” in alto a destra nella testata del blog).
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Venerdì mattina a Gerusalemme per prima cosa ci rechiamo al mercato di Mahane Yehuda dove, nonostante si tratti del mercato ebraico, l’atmosfera è coloratissima e chiassosa come in un suk arabo. Tutte le merci sono esposte all’aperto, dalla frutta, ai dolci, ai formaggi, e poi carne, pesce e spezie in un curioso incrociarsi di profumi e odori. In giro ci sono soprattutto uomini, perché le donne sono a casa a preparare la cena dello Shabbat che si festeggia a partire dal tramonto del sole del venerdì.
Non rinunciamo ad un assaggio di datteri mejoul che sono veramente una squisitezza, insieme alla spremuta di pompelmo rosa che qui è proprio un’altra cosa: non ha niente a che vedere con i pompelmi che si vendono in Italia!
Un’altra specialità tipica di queste parti è il riso all’uvetta sultanina che viene usato come contorno ai piatti di carne, mi riprometto di copiare la ricetta anche perché i sapori agrodolci che sanno di antico a me piacciono molto.
Per il resto la cucina è piuttosto simile a quella turca, soprattutto della zona di Antiochia, con la differenza, però, che non sono molto utilizzate le spezie piccanti. Un altro ingrediente che viene usato spesso è la farina di ceci cucinata in polpette (dette falafel) inserite come ripieno con varie spezie nella pita (o pida) piccola, (dalla quale probabilmente deriva anche la piada emiliana). Esiste poi anche la pita grande quanto una pizza da mangiare come il pane con i piatti di carne o verdura, come negli altri paesi mediorientali, anche se qui viene tagliata e usata individualmente, mentre nei paesi arabi il cibo è posto direttamente sopra e viene poi tagliata con le mani dai commensali (avete presenti “le mense” dei Troiani di Enea all’arrivo nel Lazio? Tanto per dare un’idea dell’antichità di questo tipo di pane!).
Abbiamo poi notato una propensione notevole per i dolci che non sono solo come quelli turchi tipo millefoglie intrisi di miele, ma hanno una composizione originale, più simile alla gelatina o alla panna cotta, ma unite alla frutta, e, devo dire, sono ottimi… anche troppo per me! Alla fine, però, la cucina italiana fa sempre scuola e così troviamo un intero banco dedicato a vari tipi di ravioli, fusilli e altri tipi di pasta. Chissà se saranno davvero commestibili! Dopo la famosa pizza al ketchap che ho avuto la sventura di mangiare a Budapest, quando trovo prodotti dall’aspetto italiano all’estero sono sempre diffidente.
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Uscendo dal mercato ci lasciamo alle spalle i grandi manifesti che celebrano il rabbino Menachem Mendel Schneerson il presunto Messia del movimento religioso chassidico Chabad Lubavitch, striscioni che infestano tutta la città e danno l’idea della prevalenza di questi movimenti estremisti all’interno dello Stato di Israele.
Dal mercato ripartiamo alla volta dello Yad Vashem “Un memoriale e un nome” Centro mondiale per le ricerche sull’Olocausto, inserito in un vasto parco fuori della città vecchia. Entriamo subito nel museo vero e proprio dove si trova un’approfondita documentazione sulle diverse fasi della persecuzione degli ebrei.
Avendo visitato, alcuni mesi or sono, il Reichsparteitagsgelände di Norimberga, il centro dei raduni nazisti, dove era spiegata esattamente tutta la retorica del Terzo Reich sulla questione della razza – le menzogne delle leggi e il restringimento progressivo delle libertà fatto passare come “rispetto” delle minoranze – quello che si vede qui a Gerusalemme appare come complementare all’altro e assume così ancora maggiore evidenza.
Anche il luogo dove tali testimonianze sono state inserite è abbastanza impressionante perché ha una forma a capanna molto appuntita con spioventi in cemento armato privo di intonaco, le zone espositive sono senza finestre, mentre solo il corridoio centrale prende luce da enormi finestroni.
Il percorso tra le varie sale, però, non è diretto attraverso il corridoio, ma è tortuoso in modo tale che il visitatore si trovi sempre faccia a faccia con muri in cemento armato, nudi e altissimi che lo sovrastano, finché si giunge alla famosa cupola della “Sala dei nomi” con le foto dei deportati che non sono più tornati. La cupola ad imbuto, se da un lato somiglia ad un antico tholos, dall’altro sembra quasi un camino di fabbrica; non so se sia voluto o meno, ma a me ha ricordato proprio l’idea della ciminiera dalla quale sono passati questi morti.
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Prima di questa sala, dove si giunge al culmine della drammaticità della memoria, ne trovo un’altra forse ancora più angosciante per chi si fermi un attimo a pensare: qui gli ebrei, ricordando la tragica vicenda della nave Saint Louis nel 1939 e l’odissea interminabile della nave Exodus nel 1947, si interrogano su dove possano andare se nessuno li vuole e li accoglie e questo resta sempre un pensiero tristemente attuale anche oggi, visto che, nonostante tutto, la vita in questo territorio appare ancora estremamente precaria.
Purtroppo ogni volta che si visita un memoriale della Shoah, proprio a causa della gravità inaudita dell’accaduto, sembra sempre che gli ebrei non siano affatto riusciti a superare la tragedia e che il dolore e il buio continuino a prevalere su tutto. Ho notato questo anche quando sono stata a Dachau (gli altri campi non li ho mai visti): il santuario memoriale delle vittime era oscuro e lugubre come pochi, non lasciava minimamente spazio alla speranza di un avvenire migliore da costruire insieme. Sembra, cioè, che questi luoghi siano testimoni eloquenti della chiusura sempre più profonda di un popolo ripiegato totalmente sul proprio dolore e autoesclusosi dal resto del mondo per combattere la propria infinita guerra contro tutti. Le architetture parlano…
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Viale dei giusti
Fuori dal museo ci dirigiamo verso il Viale dei Giusti dove scopriamo le lapidi di tutti coloro che si sono schierati coraggiosamente dall’altra parte anche a costo della propria vita. All’ingresso troviamo, ovviamente, i due alberi di Oskar e Emilie Schindler. Non si può dimenticare che Oskar Schindler morì in povertà proprio per aver speso tutti i proventi delle sue fabbriche allo scopo di riscattare il maggior numero di vite. Le scelte ideali hanno sempre un prezzo, di solito alto, ma è l’unico prezzo che fa davvero avanzare il genere umano. E’ scritto nel Talmud di Babilonia: “Chi salva una vita salva il mondo intero”.
Gli alberi di Oskar ed Emilie Schindler
Più avanti un grande abete dai vasti rami è stato dedicato a Giorgio Perlasca. Un uomo che, pur avendo compiuto inizialmente scelte sbagliate, ebbe il coraggio di ammettere i propri errori e di salvare tantissimi ebrei in modo spesso rocambolesco e incredibile; il suo esempio ci ricorda che nulla è impossibile per chi è animato dalla volontà di riuscire. Rischiando tutti i giorni la vita e spacciandosi per il sostituto del console spagnolo in Ungheria salvò circa 5.200 ebrei. “Il regno dei Cieli è come un seme di mostarda, il più piccolo dei semi, ma quando cade sul terreno coltivato produce una grande pianta e diventa un riparo per gli uccelli del cielo.”
Devo dire che camminare in mezzo a queste presenze vive, nel silenzio, ascoltando solo gli alberi, è il più grande invito che abbia mai sentito a cercare il bene, perché qui si vede che esiste sempre una speranza, che c’è sempre qualcuno che ha il coraggio di difendere l’uomo anche a costo della propria vita.
Purtroppo, come scrisse Bertolt Brecht “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi….” Eppure solo attraverso gli esempi di alcuni possiamo trovare punti di riferimento per il presente.
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Il nostro percorso della memoria continua rievocando i diversi aspetti della tragedia: nel silenzio che ci avvolge, ci avviamo verso il “Monumento e Memoriale dei bambini della Shoah” dove al buio, mentre scorrono le loro immagini, tra mille piccole luci accese a formare un cielo stellato, vengono recitati i nomi di tutti i bimbi morti nei campi di sterminio.
Memoriale dei bambini
Poco più lontano troviamo il monumento dedicato a Janusz Korczak, medico e scrittore, che preferì morire insieme agli orfani del ghetto di Varsavia (per i quali nel 1911 aveva fondato un orfanotrofio) piuttosto che lasciarli soli. Tutt’intorno e in ogni fessura della grande scultura in bronzo che rappresenta l’abbraccio di Korczak ai suoi bambini, i visitatori hanno posto piccoli sassi, per onorare la sua memoria.
Monumento a Kouzsack
Infine passiamo davanti al memoriale delle Fosse Ardeatine e così, con il cuore gonfio di commozione lasciamo il parco.
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Ci dirigiamo poi al Santuario del Libro dove sono conservati i manoscritti di Qumran e molti degli scritti ritrovati nelle altre grotte presso il Mar Morto.
L’esterno è molto suggestivo e solenne, dominato da una grande stele di pietra nera posta in contrasto cromatico e volumetrico con la cupola bianca che ricorda il coperchio dei vasi in cui erano contenuti i manoscritti.
All’ingresso l’atmosfera è sacrale, con il grande rotolo del libro di Isaia contenuto in un cilindro di cristallo che domina la sala centrale sotto la cupola, inserito in una struttura che ricorda i teuchos della Torah conservati nelle sinagoghe; intorno ci sono grandi frammenti di papiro e pergamena conservati nelle teche addossate alle pareti e protetti dalla luce soffusa del luogo. E’ quasi impossibile osservarli bene qui, ma sappiamo ugualmente di essere davanti a qualcosa di preziosissimo, forse proveniente proprio dal distrutto Tempio di Gerusalemme. La voce della storia arriva fino a noi miracolosamente conservata dopo le catastrofi, quale testamento e profezia.
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A poca distanza dal Museo del Libro troviamo un altro monumento di grandissimo interesse: il plastico realizzato da Hans Kroch su disegno dello storico e geografo Michael Avi Yonah nel quale si può vedere tutta Gerusalemme all’epoca di Cristo (secondo muro di Ezechia 700 a.C.) e nel più ampio tracciato delle mura successive, fatte costruire da Agrippa tra il 41 e il 44 d.C..
Una struttura preziosa, realizzata interamente in pietra di Gerusalemme, in modo accuratissimo da un architetto il quale si è avvalso della collaborazione dei più autorevoli archeologi che si sono occupati degli scavi della città. Riconosciamo a sud il quartiere degli Esseni posto dove oggi si trova il Cenacolo, nelle vicinanze la casa del sommo sacerdote, le grandi torri di difesa fatte costruire da Erode il Grande, la sua reggia, il palazzo degli Asmonei poi sede del pretorio, posto in prossimità del Tempio, qui appare perfettamente ricostruito.
Questo plastico ci mostra anche la porta Aurea oggi chiusa, dalla quale sarebbe passato Cristo al suo ingresso in città, e chiarisce come il percorso seguito dall’attuale via Dolorosa si trovasse fuori delle antiche mura di Ezechia all’epoca di Gesù, rendendo più probabile l’identificazione del luogo del santo Sepolcro con quello effettivo della crocifissione.
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Certo che, osservando il plastico, ci si accorge ancora di più delle continue ferite inflitte a questa città contesa dall’incessante passaggio di invasori, popoli e religioni. Una incessante devastazione che ha coinvolto, in particolare, la zona del Tempio, ma non solo. Si tratta di una sensazione difficile da descrivere, perché mentre a Istanbul la molteplicità di volti e popoli che abitarono il centro storico ha creato una città armonica e meravigliosa, qui a Gerusalemme questo dialogo impossibile si sente ovunque e ci si accorge che tutti vivono gomito a gomito odiandosi. Tutti venerano gli stessi luoghi e per questi si uccidono o si sono uccisi. Si rischia di ripartire da qui con una repulsione totale per qualunque religione.
Così nel pomeriggio ci attendono muri molto più moderni, che chiudono fazzoletti di terra contesi fino all’ultimo sangue.
Reblogged this on Pier Carlo Lava.
Interessante questo reportage, mi fa crescere sempre più la voglia di andare in Israele…il mercato, i monumenti alla Shoah, il museo del libro, respirarne l’aria…
comunque sono stata anch’io a Dachau e confermo l’aria pesante ed estremamente tragica che vi si respira, ma come potrebbe essere altrimenti? e la scritta, ormai famosa sul cancello d’entrata in ferro battuto “Arbeit macht frei”….ironicamente tragica. Ricordo che avevo così chiaro il ricordo del libro di Primo levi “Se questo è un uomo” (anche se lui era soprattutto stato ad Auschwitz) che mi aggiravo nel campo e avvertivo letteralmente un brivido di gelo allo schiena, come se percepissi la tragica energia di quei luoghi, perché io credo che un luogo che ha vissuto tanta tragedia, la conservi nell’aria, nella terra, per anni e anni, sotto forma di energia negativa e la si avverte, eccome se la si avverte, come un gelo che ti attanaglia la gola.
Mi hai scatenato ricordi ed emozioni…
Ciao Pan
carissima, informo R. del tuo commento.
sui campi di sterminio: e tu pensa che mi trovo a che fare con dei negazionisti, in queste settimane!
Grazie, questo argomento mi interessa molto.
Ecco la storia dei negazionisti, mi sembra una cosa talmente assurda! come si può negare un accadimento così enorme e tragico, soprattutto quando ancora sono in vita persone che l’hanno subito e vissuto. Inoltre, i documenti? come si può ignorare la documentazione che attesta quello che è accaduto? come è possibile, mi domando. Queste persone non vanno ignorate, sono un pericolo per l’umanità. E’ pericoloso per le generazioni future, Negando l’esistenza di cose avvenute, s’ imbastirebbe una storia sulla menzogna, si certo sicuramente è stato già fatto in passato, sicuramente. Ma non è un alibi per perdurare, soprattutto su eventi così tragici.
Ciao , sempre interessanti i tuoi articoli
Pan
è una storia di sottigliezze capziose e di pagliuzze usate per nascondere la trave, che naturalmente fa effetto su chi non si lascia turbare da cose così insignificanti come la deportazione e il massacro degli innocenti e preferisce discutere dei dettagli.
grazie dell’apprezzamento, che condivido per il tuo blog provocatorio e originale.
(ti ha risposto qui sotto anche R.R.)
Cara Pan, è vero, un eccidio di quelle proporzioni non si può esorcizzare in alcun modo, ed è proprio questo il problema: visitando Israele ho avuto la netta sensazione che molti vivano rivolti solo al passato e che le reazioni degli israeliani siano dettate da un sentimento di accerchiamento, di continua lotta e forse anche di rivalsa, tale da non favorire certo un qualunque accordo di pace nella regione. Purtroppo il male è come un sasso lanciato in un lago: le sue increspature concentriche si spandono molto lontano e per lungo tempo…
Proprio per la sua drammaticità, ma anche per la sua bellezza, Israele è un luogo colpisce moltissimo il visitatore sia nel bene sia nel male.
Grazie ad entrambi per la risposta!
Capisco la sensazione degli israeliani di sentirsi accerchiati, in effetti penso che lo siano ed è difficile ignorare una volontà molto spesso espressa di volerli annientare come stato,,,questa storia non avrà mai fine? si riuscirà mai a trovare un modo perché due culture riescano a convivere senza attentarsi continuamente? domande difficili, lo so, ma non posso che continuare a chiedermelo…
Comunque continuerò nella lettura del tuo reportage, grazie per aver condiviso le tue impressioni.
Ciao Pan
L’ha ripubblicato su cor-pus-zero.