Cesare deve morire: storia segreta della pena di morte – 148

uno degli ultimi giorni di dicembre, a Stoccarda, “Cesare deve morire”, dei fratelli Taviani, il film più bello che abbia visto negli ultimi anni.

l’ho visto in italiano (o quasi, considerando che gli attori spesso parlano dialetto) con i sottotitoli in tedesco, che mi sono stati molto utili per capire in certi passaggi dove la pronuncia meridianale si faceva troppo stretta.

un rigoroso bianco e nero, girato in un carcere dove degli ergastolani mettono in scena il Giulio Cesare di Shakespeare, e se parlano di uccidere lo fanno con tutta la potenza che viene dal fatto che per loro questa è un’esperienza vissuta.

avevo promesso a me stesso che avrei scritto una recensione del film.

ho avuto bisogno di tempo per organizzarla mentalmente, e forse come recensione vi stupirà un poco.

però fate conto che questa è proprio una recensione di quel film, quella che aspettava in un angolino della mia mente di completarsi da tre mesi.

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rispetto ai primati più simili a lui, gli scimpanzé (e prescindendo per il momento dai  bonobo, gli scimpanzé nani, trasgressivi e fricchettoni, di cui mi sono già occupato altrove), gli umani del genere Pan sapiens sapiens sono molto più cooperativi (Pan sapiens sapiens lo tradurrei: lo scimpanzé che sa di sapere – cioè lo scimpanzé che crede di sapere di sapere – fino a che non diventa: lo scimpanzé che sa di credere di sapere).

ho letto di recente nel libro di Cazzaniga, Chi comanda?, che questo è un passaggio determinante dell’evoluzione della specie umana e che è stato ottenuto nella nostra storia biologica con un metodo semplice ed elementare, cioè con la soppressione fisica di chiunque appariva troppo aggressivo e poco disposto a collaborare col gruppo.

naturalmente questo deve fare anche i conti con la spinta contraria delle scimmie umane, aggregandosi per branchi, che chiamano tribù, di identificare il maschio, o più raramente la femmina, alfa che assume il ruolo del leader del gruppo.

ed ecco l’equilibrio precario attorno al quale si definisce la figura del capo branco, del capo tribù o del leader politico: che deve essere abbastanza aggressivo da coalizzare il gruppo, in particolare contro i nemici, veri o presunti, che sono essenziali per la sopravvivenza del gruppo come unità psicologica istintiva, ma nello stesso tempo deve essere abbastanza altruista da far capire che queste sue qualità verranno usate esclusivamente nell’interesse del gruppo e non per lui stesso in maniera smodata.

in questo secondo caso un’ampia diffusione dei cromosomi del capo, e dunque il suo libertinismo sessuale, sono ammessi ed anzi confermano il suo carisma di capo.

nel caso invece il capo si trasformi in tiranno, e la differenza è sottile, diventa essenziale liberarsi di lui, ucciderlo anzi.

e allora Cesare, indispensabile fino a un momento prima, “deve morire”.

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uccidere Cesare, in modo che non solo sia fisicamente eliminato lui, ma anche, almeno simbolicamente, ma anche praticamente, i suoi possibili discendenti futuri: e in casi estremi i figli, viventi, possono essere uccisi con lui, anche se innocenti.

il gruppo cioè sta cercando di liberarsi dei cromosomi dell’aggressività egoista di cui è portatore il capo branco egoista.

ovviamente il branco che agisce così è assolutamente inconsapevole di infliggere la morte ad alcuni suoi membri con lo scopo segreto di migliorare il proprio patrimonio genetico collettivo: la giustificazione sta in oscuri bisogni di giustizia che la religione del posto si preoccupa di rendere sacri e assoluti.

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nella vita del branco che si definisce umana e che dunque possiamo chiamare politica, per le stesse ragioni, si infligge la pena di morte anche a membri minori del gruppo: si impiccano, fucilano, lapidano tutti coloro che appaiono così devianti dai valori comportamentali del branco da apparire in grado di destabilizzarlo con i comportamenti loro o dei discendenti.

la morte cerca di cancellarli dal gruppo, che in questo modo si auto-seleziona inconsciamente.

certo, nella vita del gruppo agiscono anche altri fattori, come le guerre periodiche, per non dire delle malattie, che selezionano casualmente o su basi biologiche completamente diverse; tuttavia nell’uccisione dei membri atipici e giudicati insopportabili il gruppo introduce nella selezione casuale un fattore che non possiamo dire cosciente, ma che certamente non è più completamente casuale.

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a mia conoscenza la questione della pena di morte non è mai stata esaminata da questo punto di vista, cioè guardando ad una storia dell’evoluzione umana.

e quando l’illuminismo ha affrontato la questione, l’ha vista soltanto dal punto di vista dei presunti diritti individuali naturali: concetto molto strano, perché resta ancora da dimostrare che l’uomo, animale sociale, possa vivere al di fuori del suo gruppo di riferimento.

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anche l’eliminazione della pena di morte, come più in grande la pratica sanitaria che ha abbattuto l’incidenza delle malattie, o come l’introduzione della tecnologia che conferisce democraticamente nuove capacità operative a tutti, sta nell’insieme di tutto ciò che va eliminando l’incidenza tradizionale del fattore selezione naturale dalla storia biologica umana.

gli effetti anche solo a medio raggio di questa situazione non vengono presi in considerazione, perché forse sono solo inquietanti.

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il culto dell’uguaglianza, applicato indiscriminatamente su scala biologica, porta inevitabilmente ad un appiattimento della qualità dei componenti del gruppo?

il culto democratico dei diritti individuali sta abbattendo progressivamente le difese del gruppo?

oppure ce ne sono altre che stanno prendendo il loro posto? e quali?

resta da dimostrare che non si possa raggiungere in questo un punto, superato il quale, il gruppo stesso possa crollare su se stesso.

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lasciando sullo sfondo queste domande, certamente inquietanti come ho appena detto, mi diverto ad applicare su scala empirica alla cronaca politica italiana questi concetti di biologia popolare.

Berlusconi, il Cesare che deve morire per quel 70% della popolazione che ha capito che è un dittatore egoista e vuole liberarsi di lui (e mi piace l’idea che l’antiberlusconismo abbia alla fine una base biologica ineliminabile… :)).

Bersani, che non sarà mai capo, per quanto possa essere potenzialmente un bravo leader nelle scelte concrete, perché non risulta abbastanza aggressivo per imporsi al gruppo, e rimane privo di carisma.

Grillo, che aggrega un gruppo attorno alla caccia al nemico, ma che viene immediatamente abbandonato (guardate il plebiscito impressionante di critiche sul suo blog in questi giorni) appena ci si rende conto che è a sua volta un leader egoista che si serve del gruppo per i suoi scopi.

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e il film?

che cavolo c’entra il film con questo discorso, o bortocal?

c’entra, c’entra: Shakespeare, come sempre, aveva già capito tutto, e gli ergastolani anche.

7 risposte a “Cesare deve morire: storia segreta della pena di morte – 148

    • e pensare, cara marta, che io non bevo mai caffè (anche per via delle mie irregolarità cardiache), neppure per scriverli, questi post micidiali…. 😉

  1. Leggendo, pensavo all’ostracismo ateniese: Temistocle, divenuto troppo potente e egoico a causa dei succcessi, fu costretto ad allontanarsi da Atene, pur non avendo messo in pericolo la democrazia. Senza sangue, insomma.

    • interessante suggerimento, quello di una alternativa alla pena di morte che è l’esilio, imposto anche senza colpa, ma semplicemente perché qualcuno è diventato troppo potente.

      forse è lo stesso meccanismo da eccesso di successo che in questo momento sta colpendo Beppe Grillo.

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