200. la rustica Sumatra. My Indonesia 5.

Sono a Sumatra, nel cuore della notte, qui, ma sarebbero solo le sette di sera da voi, come mi ricorda la data in fondo al netbook che non ho cambiato.

Qualcuno sa dirmi perche’ si dice “a Sumatra” “a Giava”, e invece “in Sardegna” “in Sicilia”? dopotutto sono isole molto piu’ grandi, Sumatra è da sola una volta e mezza tutta l’Italia…

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Pioveva stamattina, quando mi sono avviato al traghetto; sul piazzale mi ha salutato con grida la vecchia pazza di ieri sera, che in apparenza ci ha passato la notte.

Con un euro si paga il passaggio, tre ore di navigazione, più o meno la larghezza della Manica; con un altro euro mi pago la sdraio, a coperta, sulla parte più alta del traghetto, e con un altro euro ancora il pasto: pollo e riso, con le piccanti verdure locali.

Lascio scorrere il paesaggio devastato di Mekar davanti ai miei occhi, sotto la tettoria che sgocciola, ma dal lato opposto compaiono già, contro lo sfondo grigio del cielo coperto, isolotti intatti, con qualche apparecchio da pesca fatto da grosse canne di bambù seccato.

Se ho fatto bene a lasciare Giacarta per Mekar, ancora meglio ho fatto a lasciare Mekar per Sumatra.

Il battello si anima di vita rustica, al piano di sotto c’è musica, mi dicono; vado a dare un’occhiata alla cantante fasciata di rosso, contro le luci scintillanti, ma ritorno subito su, sulla mia sdraio da turista del secolo scorso: mi immergo nella lettura di un giallo di Agatha Christie, lascio che qualche goccia mi colpisca qua e là; il vantaggio di questa pioggia brumosa,che prova a spegnere ogni incanto dei luoghi in una specie di spento ottobre nebbioso è che non fa affatto freddo, devo anzi andare a recuperare la giacca europea, e alla fine mettere anche la sdraio al riparo, nell’unico angolino dove la tettoria non lascia raccogliere e cadere di sotto le pesanti gocce d’acqua.

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Il dialogo con la gente del posto si conferma facile nell’approccio, ma difficile nella prosecuzione; l’inglese è poco diffuso e limitatissimo; la domanda se non so parlare la lingua locale si ripete, con una specie di stupore.

Intanto isole e isolotti degni dell’Ulisse di Saba si susseguono, prima del tratto in mare aperto, e riprendono in una sequenza che ha qualcosa di ancora più magico quando cominciamo ad avvinarci a Sumatra – ma la batteria della videocamera si scarica proprio adesso, ieri sera mi sono dimenticato di ricaricarla….

Le loro forme sono così varie, gli intrichi dei passaggi possibili fra l’uno e l’altro così avventurosi che cado in una sindrome da Indiana Jones: eccomi qui a poche ore dal primo sbarco (aereo) a prepararmi al secondo (marittimo).

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E l’isola che appare ora sembra degna della deviazione: tanto la Giava che ho alle spalle, che ha una superficie meno di metà dell’Italia e una popolazione un po’ più del doppio della nostra, così che la densità è 5 volte più alta di quella già altissima del nostro paese, appare iperurbanizzata e devastata nella parte che ho visto finora dalle costruzioni pretenziose ed arroganti delle nuova ricchezza oppure da quelle mediocri e miserabili della povertà che la alimenta, tanto Sumatra ha una specie di rozzezza sdegnosa della modernità e un egualitarismo diffuso in un reddito mediocre.

La vegetazione domina dappertutto, le costruzioni sono sparse, anche l’approdo del traghetto, con i suoi piazzali asfaltati, sta immerso nel verde.

Che sembra innocente, ma non lo è: qui tutto è il risultato delle immane eruzione del Krakatoa, o Krakatau, come lo chiamano qui, nell’Ottocento, la più mostruosa della storia umana, che cancellò d’un sol colpo la vita in un raggio di 40 km, entro il quale tutti i luoghi furono pesantemente bombardati da una gigantesca pioggia di bolidi e lapilli, che non lasciò in piedi nulla.

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E’ mezzogiorno oramai, ma orientarsi a sbarco avvenuto in questi pochi edifici per andare a Kailinda e’ facilissimo: uscendo dalla stazione dei traghetti, ecco dopo poco un cartello giallo col suo nome, e una fila di opelet, di furgoncini, sempre molto contenuti nel prezzo, su uno dei quali mi accomodo tra molte donne curiose.

Se qualcuno ritiene che l’islam significhi di per se stesso maschilismo, venga in Indonesia, nel più grande paese islamico del mondo: sarà un islam molto speciale, quello che ha come sfondo la libera cultura induista, ma nonostante Sumatra appaia, forse perché più arretrata, anche più religiosa di Giava, e il muezzin non eviti di farsi sentire agli orari previsti per le cinque preghiere obbligatorie della giornata, quelle che smentiscono ogni identificazione obbligata fra islam ed antifemminismo sono le donne petulanti di Sumatra che si stringono senza imbarazzo al mio corpo e ridono commentando i miei tentativi di ripetere qualche frase fatta presa dalle ultime pagine della guida.

What’s your name? Mauro. … “Marina” risponde, stupita la più giovane e carina, l’unica che sa qualche parola di inglese ed è visibilmente lusingata di questa prevalenza sulle altre.

Altre domande si fanno notare per la loro stranezza: vado a Sumatra per lavoro? ci abita la mia famiglia?

Il sottinteso mi pare che sia: che ci vieni a fare in questa specie di buco, vecchio matto? E io, che capisco, farfuglio Krakatau Krakatau.

Infatti, comprendo che loro non immaginano neppure che la mia vacation sarà di andare in giro come un indemoniato da un posto all’altro: per loro se uno si prende la briga di venire dall’Itàly fino a qui, lo farà per fermarcisi ad oziare un poco, no?

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Intanto la strada segue un percorso che attraversa una vera giungla, adesso mi ricordo di avere letto appunto che la punta meridionale di Sumatra è un parco nazionale; ce ne sono molti qua, e ci vivono perfino elefanti selvatici e rinoceronti; ma anche quando il paesaggio, più avanti, cede a qualche coltivazione, e compaiono piccole case rustiche, che hanno tutte un’aria inspiegabilmente e indefinibilmente un poco olandese, rimane netta l’impronta selvaggia che rende l’isola così vicina alle mie attese; ma poi, per le caratteristiche della architettura e la dominanza delle ripete tettoie di mattoni rossi nerissimi, Sumatra mi ricorda il Kerala: e forse le somiglianze dipendono dall’avere condiviso, almeno brevemente, momenti di storia coloniale simile.

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Mi sto riempiendo di entusiasmo: viaggiare è per me prima di tutto un piacere in se stesso: quello di affrontare e risolvere problemi; ma qui si aggiunge la bellezza inconsueta, non stupefacente ed eccelsa, ma quotidiana e non per questo meno straniante, di quest’isola equatoriale che si oppone a Giava, ma in un certo senso la completa, e comincia a dare concretamente il senso di un subcontinente insulare più esteso dell’India, ma parcellizzato in centinaia di lingue e culture differenti, ognuna diversa in se stessa, perché se nessun uomo è un’isola, come diceva John Donne e lo citava Hemingway, non avevano conosciuto l’Indonesia, dove ogni isola può essere un modo a sé e quasi, in piccolo, un diverso pianeta.

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L’opelet attraversa il paese, facendomi intuire che è lontano dal mare, e mi lascia proprio davanti all’Hotel Beringin, che a dirlo così chissà che cosa vi aspettate, ma è invece un vecchio villone olandese, non privo di fascino, a cominciare dal giardinetto interno pieno di gabbie di uccelli esotici o dalla vetrinetta che esibisce conchiglie ricchissime.

Scelgo una camera dal costo modesto, senza aria condizionata, che però dà su un cortiletto interno di piante grasse fiorite, escludendo la prima che mi viene proposta, troppo segnata dall’umidità.

Lo scopo per cui sono qui è la visita al Krakatoa che voglio realizzare domani: una vera follia per il costo, ma quando scopro che con altri 20 euro in più al Krakatoa ci si può passare anche la notte, che sarò giusto quella del mio 65esimo compleanno, decido di farmi un regalo importante: 24 ore per un viaggio in barca e ritorno, verso e da quel punto in cui sorge dalle acque, oggi assieme al vulcano minore generato dall’eruzione del ventesimo secolo, il vulcano più tremendo della storia umana, una tempesta di ceneri che avvolse il pianeta e determinò un crollo delle temperature che cancellò le estati di tre anni prima che le polveri fossero del tutto riassorbite e si depositassero.

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Il prezzo già molto alto dell’escursione viene ulteriormente gravato dal fatto che devo change money: 100 euro, salvo un piccolo resto, per pagarla: vengo portato ad un baracchino che approfitta di me con un tasso più basso del 7% di quello praticatomi in aeroporto, dove prudentemente io ho cambiato 100 euro soltanto, sapendo che di solito all’arrivo il cambio è meno favorevole; e invece non sapevo che a Kailinda sarebbe stato molto peggiore il baracchino del change che all’aeroporto.

Racconto questo dettaglio insulso per far emergere un particolare della psicologia umana o sumatrese, fate voi.

Io al cambista glielo faccio notare che all’aeroporto ho cambiato a 122 e che il suo cambio a 115 è una truffa; lui ride e scrive 1: 11,500; io non capisco che questa sarebbe la base di una trattativa, se solo scrivessi un altro tasso lì sotto; ma siccome sento che non ho scelta – e non è vero -, non lo faccio, e le mie proteste lo fanno divertire sempre di più, anche perché io non mi decido una controproposta 1:120, che sarebbe probabilmente il risultato dell’accordo a cui lui mira.

Però se prima volevo cambiare 200 euro, ora ne cambio 100 soltanto: mi pare di avere così chissà qualche base contrattuale, ma proprio non rifletto che per lui è meglio guadagnare 7 euro su cambio di 100, che 5 sul cambio di 200; e poi vuoi mettere la soddisfazione di fregare lo straniero?

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Nessun dubbio che questo è l’atteggiamento culturale dominante qui, e ancora più spiccato a Sumatra, un poco più integralista e conservatrice; però la capacità particolare che si nota è di non farlo pesare, di farlo con leggerezza, chiedendo quasi la complicità.

Tipico è qui correre incontro al turista per chiedergli qualcosa, e poi ridere perché lo fa, perché risponde, perché ti dedica attenzione; e però, alla fine, nonostante il gioco del denaro, il messaggio che passa è quello di una simpatia vera: magari è la simpatia che può avere la contadina per la gallina che le fa le uova, ma non ha nulla di quella ostilità sotterranea, di quella specie di spirito conflittuale permanente e irrisolto che tende ad animare l’arabo contro l’europeo.

Eppure anche qui abbiamo fatto le nostre crociate noi occidentali.

Scrivo questo per dire che noi europei conosciamo l’islam attraverso il filtro prevalente della cultura araba e della connessa storia dei conflitti storici che ci abbiamo avuto; ma non è necessariamente così, per l’islam: e naturalmente era proprio quello che ipotizzavo di potere scrivere: ma era solo un’ipotesi, non sostenuta dalla freschezza di questi primi incontri, né dagli esercizi mentali necessari per adattarsi a questo tipo di relazione così contraddittoria.

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Non me la sono presa più di tanto, comunque: ho sostanzialmente travasato i biglietti dal change alla proprietaria dell’hotel, ho dato un contributo all’economia di Sumatra, e ho avuto anche qualcosa di cui scrivere, aspettando che mi torni il sonno.

E ora che ci penso, da questa minitruffa locale, da cui la guida della Lonely Planet mi avrebbe ripetutamente messo in guardia ho perduto 5 euro, ma vogliamo scherzare?e io sto qui perfino a parlarvene?

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A proposito di sonno che continua a mancare: in camera mi sono giusto appisolato per un po’, poi ho passato un’oretta a letto, il giallo della Christie è sempre più complicato, ma non arrivo a finirlo.

Verso le 4 del pomeriggio chiedo alla reception da che parte è il mare, per andarci a piedi, e loro mi dicono che mi accompagnerà il figlio dei proprietari, un ragazzino piccolino, che non mostra più di 16 anni, e sono quelli che ha in effetti, che prende la sua moto, la stessa con cui mi ha portato al cambio truffaldino.

Ci sono un paio di chilometri, prima di arrivare ad un pontile squallido, che però si affaccia su una bella spiaggia più avanti, e chissà perché non mi ha portato lì, invece.

Succede che a questo punto chiedo al ragazzo di portarmi a Canti, un villaggio di pescatori a 5 km da Kalianda, dice la guida, ma il ragazzino sembra specializzato nello scegliere i posti peggiori, pur se qui si paga addirittura un biglietto di ingresso, di un euro.

Il ragazzino non è stupido, sono io che lo sono: il suo scopo è infatti quello appunto di lasciarmi insoddisfatto, così che io gli chieda di andare a vedere qualcos’altro: in ogni caso, attaccato a lui con una mano sulla spalla, mi lascio portare dove vuole, tanto dopo Canti, che comunque mi ha lasciato vedere per due minuti, io non conosco altro: gli dico che vorrei andare tra le case dei pescatori, più avanti, quelle che si vedono ad occhio nudo e sarebbero due passi a piedi in riva all’oceano, e lui dice sempre che mi ci porta con la moto, poi sono chilometri, e mi lascia davanti a qualche traliccio, dove la spiaggia è più piena di rifiuti.

Mi porta perfino per un percorso scoscesissimo su una montagna, in un punto in cui c’è solo un cancello davanti a una specie di postazione militare, mentre lui si scosta per orinare.

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Riparto con la sensazione un po’ sciocca di non avere visto nulla, ma intanto è bello di per sé andare col vento addosso senza sapere dove, e comunque la bellezza dei posti è tale che lui non riesce a impedirmi di fare qualche bella foto o su spiagge dai riflessi grigio smeraldini, o sui tre isolotti misteriosi che fronteggiano questo tratto della costa, o su un paesaggetto di risaie costellato dai macigni scagliati dal vulcano, in questa dimensione di vita che lentamente è risorta e si è fatta strada contro la morte.

Ad una capanna gli dico anche di fermarsi perché ho intravisto una scimmietta: sono scimmie domestiche: la madre sta alla catena, di guardia, come se fosse un cane: il piccolino invece, difficilissimo da fotografare, corre ancora libero dappertutto.

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Rientriamo nella frescura della lunga corsa, dove il ragazzino si scatena sull’acceleratore e io mi devo quasi accovacciare dietro di lui per tagliare il vento; è già notte, non mi resta che uscire per la mia cena ad un baracchino, dove si preparano degli spiedini di carne che mi ricordano quelli di Yangon, ma sono molto più saporiti.

Di fronte abbiamo la più strana moschea che io abbia mai visto: una perfetta imitazione di una chiesa cattolica, con tanto di scalinata di accesso,cupola fra due campanili, che però qui sono invece due … per il muezzin.

E con questa immagine quasi simbolica dell’eclettica cultura di Sumatra chiudo questo resoconto.

L’ho pensato prima di cadere addormentato, l’ho scritto appena risvegliato.

3 risposte a “200. la rustica Sumatra. My Indonesia 5.

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