merda, merda, merda.
ho deciso oggi venerdi’ 26 aprile da Bogor di passare a Bandung, senza fermarmi, e di proseguire direttamente per Cirebon sulla costa nord, al confine oramai tra la Giava occidentale, che cosi’ poco mi ha dato finora, e quella centrale, che spero sara’ migliore.
parto dal mio alberghetto a circa un km dalla stazione degli autobus: la bella veduta su moschea e un pezzettino di vallata e’ bilanciata dal fatto che il muezzin mi ha svegliato tonante per la prima preghiera delle 5: ma qui ho il sonno duro e riprendo.
non solo dormo quantita’ industriali, a conferma del fatto di avere una coscienza a posto o un pelo sullo stomaco lungo cosi’, ma ho anche ripreso a sognare, dopo decenni: sogni lunghi, complessi, elaborati, con una vera sceneggiatura, che perlopiu’ assomigliano a veri e propri racconti morali, al risveglio, quando li ricordo benissimo e se il netbook funzionasse li potrei raccontare per filo e per segno.
si parte quindi solo alle otto, e poco dopo decido di beneficare un vecchio signore che sembra aspettarmi 200 metri piu’ avanti su un triciclo a pedale: nella veste del colonialista mi faccio forza, perche’ non mi ero accorto che la strada fosse cosi’ in salita fino a che non c’e’ stato un altro a farla per me e lui ha cominciato a pedalare: poi pretendo anche, sbagliando, che mi porti alla stazione dei bus per l’aeroporto, che sta dal lato opposto della superstrada e facciamo una manovra contromano da incubo: cosi’ mi faccio a mie spese il sovrappassaggio col troller per la stazione giusta che sta 100 metri piu’ avanti, come ben sapeva il mio driver, ma dalla parte dove stava lui.
ma insomma anche questo tentativo di suicidio fallisce, l’autobus per Bandung mi attende, con un autista simpatico che si fa fotografare, mi metto nella posizione migliore, proprio in prima fila dove si vede la strada davanti, e si parte.
per dove? sono circa 100 km di strada iperpanoramica da fare, avevo addirittura pensato di fermarmi a meta’ strada, all’altezza del passo, in una zona di vulcani, poi avevo scartato perche’ la guida preannuncia blocchi stradali nel week end, che penso iniziera’ stasera.
quando l’autobus infila gagliardo l’autostrada, penso che sia soltanto per aggirare Bogor, ma ben presto ogni dubbio cade, e una sorda disperazione mi prende: l’autobus sta filando verso Giakarta: oddio, filando non e’ la parola giusta, perche’ presto iniziano le code.
fate conto, per rendere l’idea che io ho scelto di andare da Piacenza a Bologna e che l’autobus ha scelto di andarci passando per Milano e Verona.
non sto scherzando: invece di 100 km, sono 250.
e comincio a capire perche’ Giakarta e’ cosi’ intasata, se da qualunque posto si voglia andare a qualunque altro in Giava occidentale si deve passare per Giacarta.
non e’ finita: a Bandung, che e’ la seconda citta’ dell’Indonesia, con 7 milioni di abitanti, ci sono due stazioni dei bus, quella per chi arriva da ovest e quella per chi parte da est, o viceversa naturalmente: sono 14 km di percorso urbano che assomiglia meglio di qualunque altra cosa all’inferno di Dante.
e’ vero che il pullman con l’aria condizionata costa solo 40 centesimi di euro, ma ci ha messo due ore d’orologio.
parlo con un ingegnere che lavora a Giacarta e abita a Bandung, che si fa questa tortura tutti i week end, per vedere famiglia e bambini, e mi rendo conto che il week end in Indonesia comprende anche il venerdi’ evidentemente…, e mi si chiariscono le cose: e’ lui, che commentando il mio tentativo introduce l’opportuna distinzione fra turista e viaggiatore, dicendomi che io sono un traveller, non un turista, e ha ragione.
parto che e’ gia’ il pomeriggio dalla seconda stazione dei bus di Bandung per Cirebon, che ho scelto perche’ e’ la citta’ della simpatica studentessa conosciuta sul battello da Sumatra, spero che le assomigli almeno un poco, per apertura mentale, e perche’ NON e’ una meta turistica, e spero di salvarmi nel week end.
il percorso dovrebbe essere di 4 ore e ne durera’ 6: una coda ininterrotta su montagne, dove il traffico e’ praticamente bloccato: ci arrivo alle 8 di sera, dopo un primo momento iniziale di terrore perche’ mi pare che anche per andare a Cirebon l’autobus abbia scelto la strada di Giacarta, che sarebbe come andare da Genova a La Spezia sempre via Milano.
insomma, sono stato in pullman, salvo due soste intermedie per sgranchirmi le gambe, 12 ore esatte per fare un percorso di 260 km: e poi parlavo male del Myanmar primitivo dove mi occorrevano 12 ore per farne 600.
alle otto di sera da queste parti e’ notte fonda, trovero’ qualcuno alla stazione dei bus di Cirebon, che opportunamente e’ stata collocata a 5 km dal centro della cittadina, che ha meno di 200.000 abitanti, ma sembra occupare la dimensione di Roma?
ecco un mare di motociclisti che non aspetta altro che un turista esasperato, che oltretutto capisce al volo come mai nessuno metta piede a Cirebon fra i turisti: c’e’ un’afa cavernicola, un’aria calda che ti attacca a pelle e vestiti facendone una cosa sola, equatore che piu’ equatore non si puo’.
mettere il mio trolley consumista e gigante tra il guidatore e il manubrio? ma non e’ pericoloso? certo che lo e’, ma voi vi fareste questi 5 km che promettono di durare ore in un qualunque veicolo chiuso?
e cosi’ partiamo, io coi capelli al vento, lui col casco, e non succede niente: le strade sono vuote, la citta’ sembra percorribile, l’hotel fronteggia un canale e ha una vecchia aria olandese malinconica.
non ci si respira dentro la camera, ma immergendomi ogni ora nella solita vaschetta indonesiana di piastrelle azzurre riusciro’ a dormire ad isole e arcipelaghi sparsi…, fino a che l’arrivo del mattino che si rivelera’ piovoso non rinfreschera’ l’aria permettendo uno sprint finale di 5 ore quasi continuate di sonno, muezzin permettendo.
il malumore che mi ha dominato deve essere contrastato: vado al migliore ristorante di pesce della citta’, che sta a cento metri dal mio hotel Asia.
qui si mangia cinese, spaghetti saporitissimi e un pesce in salsa dolce che e’ la fine del mondo e mi riconcilia con la giornata.
nella quale il nervosismo mi ha dettato due teorie estemporanee che vado ad accennare.
la prima: che dove la densita’ media della popolazione e’ di 1.000 persone per km quadrato, non si puo’ viaggiare, ma solo fare i turisti: questo viaggio e’ stato mal programmato, da domani devo fare il turista e non il viaggiatore.
la seconda teoria estemporanea nasce dall’osservare che quella indonesiana e’ una perfetta societa’ postmoderna dove si e’ cancellata completamente la storia.
o almeno cosi’ sembra o cosi’ sembrava al vostro viaggiatore nel posto sbagliato: e siccome non ho avuto il tempo di trascriverla in maniera argomentata, e non ce l’ho neppure adesso, credo che sia meglio sperare che il tempo ne cancelli la memoria, prima che io torni a casa a completare questi appunti.
Ciao Mauro, ricordo ancora il traffico di Giacarta oltre 20 anni fa. Però almeno non c’era traffico nel resto di Giava…Pare che il progresso si debba per forza misurare dal numero delle auto in circolazione. Triste, vero? Comunque nella pianura padana piove da mesi e anche oggi ci sono le luci accese a mezzogiorno: fuori diluvia ed è così scuro che pare di essere in Transilvania a fine gennaio. Take it easy! Un abbraccio. Dud
ciao, carissimo, che piacere trovare un tuo commento…
siccome dopo Ceribon sono passato al treno per arrivare a Yogyakarta, mi ero illuso che il problema fosse di quel grande unico bubbone che e’ diventata Giava occidentale.
ma oggi, per portarmi da Yogyakarta a Burobudur, 42 km, due ore, ho dovuto tornare per forza al bus, e ho visto una situazione appena un poco migliore.
aggiungi che con questo clima l’automobile e’ un insulto all’intelligenza e che il 90% del traffico e’ qui naturalmente su ciclomotore: eppure le strade scppiano lo stesso.
suicidio programmato?
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