270. la città e la gente di Cirebon – videoclip indonesiano n. 18.

del mio arrivo notturno a Cirebon, in un’afa da equatore puro, e poi dell’hotel Asia, che sta lungo un canale, raggiunto pericolosamente con un motodriver affittato al momento col grosso troller tra me e lui, della splendida cena di pesce a un ristorante cinese, della notte tormentata dal caldo, ho già raccontato abbastanza bene nella parte finale di questo post: 204. un giorno perso (forse), in un viaggio sbagliato (forse). My Indonesia 8. e semmai potesse avere un interesse vi invito a rileggerlo.

aggiungo solo due piccole cose.

* * *

la prima riguarda il caldo della città.

che è a nord rispetto a Bogor – la tappa precedente, considerando che Bandung è stata soltanto un passaggio -, ma Bogor era poi tra le montagne, o meglio tra i vulcani, perché in Indonesia pare che tutte le montagne siano vulcani o attivi o provvisoriamente spenti, ma soprattutto poi più a nord lì significa più vicino all’equatore, considerando che Giava si trova a sud del medesimo.

tuttavia la ragione di quel calore che mi impedì di dormire per buona parte della notte non stava né nell’uno né nell’altro motivo, credo, ma semplicemente nel fatto  che sia Canti e la punta est di Sumatra in cui mi ero recato nei primi giorni, sia Bogor erano esposti al grande Oceano Indiano aperto a Sud e dunque il calore naturale determinato dalla posizione geografica poteva essere  itigato dall’influsso oceanico.

Cirebon invece dà sul mare di Giava, ristretto tra quest’isola e quella settentrionale del Kalimantan, che noi conosciamo come Borneo, oltre la quale si apre comunque il mar Cinese meridionale, quindi su tratti di mare chiusi fra altre terre, che credo riducano di molto l’influsso marino sul clima.

* * *

e dunque, ecco la sofferenza di quella notte, dopo le 12 ore di autobus, che io mitigo immergendomi nella vaschetta quadrata di piastrelle azzurrine che sta nel bagno del mio piccolo hotel economico, che ho già trovato anche negli altri, visto che viaggio sempre in economia, e della quale per la prima settimana non ho ben compreso la funzione.

e questa è la seconda aggiunta al post scritto in situazione quel 27 aprile.

queste vaschette, fate conto di 50 com per 50, alte e profonde circa 80 cm, sembrano inadatte a qualunque scopo: per i primi giorni non sono neppure riuscito a scoprirne lo scarico.

quindi, mi vergogno a dirlo, mi ci lavavo dentro, con tanto di sapone, considerandole delle vasche occidentali solo piccole e particolarmente scomode e oltretutto assurdamente prive di scarico.

ho lasciato quindi dietro di me le tracce del passaggio di un autentico selvaggio, di uno scimmione occidentale privo del più elementare senso civico.

perché, al contrario, queste vasche sono dei semplici depositi d’acqua, dai quali ci si deve rifornire con i secchi di plastica a disposizione per versarsi l’acqua addosso, standone ovviamente fuori…

quelli sono depositi di acqua e se ti ci insaponi dentro anche soltanto i piedi, rovini decine di litri d’acqua; se poi neppure la scarichi, quest’acqua, rischi anche di fare, senza volerlo, del male a chi verrà dopo di te, se non si accorge che quest’acqua tu l’ahi oltretutto inquinata.

vorrei finire qui queste riflessioni simboliche sulla presenza dell’occidentale inquinatore, che per l’occasione sono io, in queste terre dalle tradizioni più rispettose dell’ambiente-

mi devo fare ancora un’aggiunta, perché viene in mente quel passaggio del libro di Rampini sull’India dove lui considerava un segno di sensibilità ecologica straordinaria la scritta che aveva trovato nella camera del suo hotel di lusso, che invitava il turista a non sprecare l’acqua… (ne ho parlato nel resoconto dimuno dei miei due viaggi in Kerala…).

qui nessuna scritta, e il messaggio è nei fatti, a saperlo intepretare: l’acqua è preziosa ed è anche di chi verrà in questa camera dopo di te: non sguazzarci dentro. cafone.

esattamente quello che al contrario ho fatto io, anche quella notte, immergendomi ogni mezzora in quel poco d’acqua per rinfrescarmi, dato che il fan, la ventola, non era sufficiente.

però, non ci giurerei, ma dev’essere stato proprio qui, la sera dopo, che ho scoperto lo straccetto bianco quasi dello stesso colore delle piastrelle che tappava il piccolo buco di scarico della vasca e consentiva di svuotare la vasca facendone scorrere il contenuto nel pavimento e nella mia mente è balenato il pensiero che per lavarsi non occorrono decine di litri d’acqua in un recipiente, ma ne bastano una decina da versarsi, rinfrescanti, sul corpo in sofferenza per il troppo calore.

* * *

ho già accennato che il motivo della mia andata a Cirebon era stato l’incontro con la studentessa universitaria islamica osservante che studiava il tedesco che avevo incontrato sul traghetto da Sumatra: la quale mi aveva dato l’idea di una città originale e vivace.

non mi ero affatto sbagliato: questo primo video, che descrive il mio primo impatto con le sue strade e la sua gente, lo dice già.

dico di più: come si deduce anche dal titolo del topic scritto un giorno dopo, ero arrivato a Cirebon in uno stato di demotivazione e col senso del fallimento del mio viaggio: giorni di spostamento, ma a parte le due straordinarie esperienze del Krakatau e del Kebun Raya di Bogor, un bilancio in passivo: una settimana su Giava non era ancora risarcita da queste due esperienze, sia pure diversamente straordinarie, soprattutto la prima.

la scelta di Cirebon, località non priva di attrattive, ma modeste e poco turistica, si è rivelata invece azzeccata per cominciare ad entrare in contatto con un’Indonesia autentica, e  anche parecchio originale.

in qualche modo il mio viaggio in Indonesia, ossia fra la sua gente, comincia da qui; e la mia commentatrice, oramai abituale, del video in anteprima, ha proprio colto questa volta la novità, quando lo commenta come tra poco vedremo.

* * *

Sono rientrata alla base per modo di dire, perché non conosco più dov’è  la mia base e ripartirò di nuovo per la solita meta estiva .
Mi guardo il tuo viaggio, mi rilasso, mi riposo e noto tanti nuovi particolari che forse commenterò ancora  in ritardo.
My Indonesia 18:
Murales quasi come da noi , perfino la facciata della casa decorata con frutta potrebbe sembrare un murale in bassorilievo.
Macchine per cucire che ritornano anche da noi in negozi aperti di recente, al posto di negozi chiusi per fallimenti , per riparazioni sartoriali; si ritorna al capo vecchio trasformandolo o riparandolo, s’indossa con qualche modifica il vestito della nonna o del papà e si usa il vestito di qualche anno fa.
Poi i platani o cambures (simili alle banane, che buoni fritti).
Ancora la papaya o lechosa con il suo potere antinfiammatorio con la sua papaina (enzima digestiva), mangiandola tutti i giorni ha potere rigeneratore.
C’è qualche tradizione legata alle gabbie o agli uccelli? Si vendono anche per souvenir o mi confondo con la Cina.
E poi sandali e scarpe fuori all’uscio, si entra scalzi segno di pulizia.
E poi, e poi .. finalmente bei volti di ragazzi e ragazze.
.
* * *

.

c’è già tutto quel che serve, in queste parole, ma, tanto per aggiungere anche io qualche commento,  spero che vi colpiscano favorevolmente, come hanno colpito anche me, i murales, le scritte sui muri, le insegne vagamente futuriste…

simbolo di un’Indonesia a sorpresa moderna e lanciata verso una cultura in qualche modo internazionale, ma nello stesso tempo legata alle proprie tradizioni.

se inserite in You Tube come chiave di ricerca Cirebon, il nome della città, ecco che vi usciranno molti video (dai quali faccio conto di ricavare le musiche dei prossimi videoclip sulla città – che ha offerto un materiale di osservazione ricchissimo) che rispecchiano proprio ed esprimono questo stesso carattere che in poche ore di osservazione cinematografica ho colto anche io.

* * *

ma da qui a dire che Cirebon mi ha fatto capire l’Indonesia, ce ne passa ancora…, e passeranno molti altri video, prima che io possa anche soltanto provare a dire qualcosa su questo tema, o possa provare ad entrare nell’identità nello stesso tempo aperta e sfuggente di questo popolo.

devo solo rispondere ad una domanda della commentatrice sulle gabbie degli uccelli; ne ho già accennato quando ho scritto della mia prima notte a Mekar: sono una tipica tradizione indonesiana; qui ricompaiono, in modo tutto sommato ancora discreto, nel passaggio di un venditore ambulante di gabbie canore.

per me queste gabbie sono una grande metafora del fatto che questo popolo si sente prigioniero e canta e ama la musica come strumento di una libertà almeno fantastica.

* * *

prigioniero di cosa esattamente? quale è la costrizione che gli toglie la parola?

io la mia interpretazione ce l’ho, adesso, naturalmente, ma non l’avevo ancora formulata a Cirebon, e quindi ci sarà tempo per dirla e bisogno di altri videoclip per arrivarci.

abbiate soltanto un poco di pazienza, e per ora passeggiate con me per case e per vicoli, mettete i vostri occhi curiosi detro i cortili o le case, dove nessuno vi respingerò, anzi vi accoglierà con cordiali solari sorrisi.

(anche se piovigginava poi quel giorno, e la stagione delle piogge non era ancora del tutto conclusa…).

Una risposta a “270. la città e la gente di Cirebon – videoclip indonesiano n. 18.

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