ancora 800 metri verso nord dai templi minori appena visti, intanto che il sole sale nel cielo e con la sua violenta luce a picco che taglia l’aria umida dei tropici, determina nelle fotografie un eccesso di contrasto che appiattisce i colori in una bianchiccio inespressivo, che ieri e oggi i lunghi fotoritocchi hanno cercato di eliminare con un lavoro paziente.
il Candi Bubrah, che ci siamo appena lasciati alle spalle a circa un chilometro di distanza, era comunque connesso al complesso che vediamo nel videoclip di oggi, come sua anticipazione in uno dei quattro punti cardinali, e questo basta da solo a far intuire la grandiosità di una struttura che arrivava ad una immagine prospettica d’insieme all’incirca quadrata di quasi due chilometri di lato, e quattro anelli successivi concentrici di templi (nella veduta area qui sotto se ne vedono solo tre, perché il quarto, più lontano non risulta più percepibile e si intuisce appena in una linea continua in alto a destra).
ma eccoci comunque al cuore di questo gigantesco inno al potere e alla fede buddista: a Candi Sewu, che significa “i mille templi”.
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di edifici riconoscibili (si tratta, a parte quello centrale, soprattutto di tempietti) ne sono rimasti solamente in realtà soltanto circa un quarto, attraverso 13 secoli di storia, terremoti e distruzioni, provocate anche dal vulcano Merapi, che incombe sullo sfondo.
la distruzione è infatti il tema visivo centrale di questo sito, che ha una imponenza che meriterebbe da solo una visita dedicata esclusivamente a lui, ma viene oscurato dal complesso induista ancora più spettacolare e pressochè contemporaneo, e non aveva praticamente altri turisti presenti, a parte una coppia di ragazzi giapponesi.
ma, mentre nel più grande e curato complesso induista i resti non sistemati rappresentavano una piccola appendice laterale, qui sono quasi i veri protagonisti della scena, massa enorme e disordinata che si insinua quasi dentro ogni immagine visiva e sembra il grido di dolore di un caos mortale che non potrà più essere neppure approssimativamente riportato ad un senso e ad una ragione.
la potenza della devastazione che ha posto fine a quel sogno di grandezza e purezza è pari soltanto alla potenza stessa di quel sogno e ne rappresenta quasi il contrappasso; e rende quelle rovine quasi dolorose, così come era stata esaltante la costruzione di quello che erano state prima che la potenza del tempo le riducesse a massa quasi informe.
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il carattere buddista degli edifici è qui immediatamente evidente per il profilarsi di alcuni elementi architettonici e decorativi che riportano al tipico repertorio simbolico di quella religione: se non fossi stato un po’ sopraffatto dalla stanchezza e dalla sindrome di Stendhal l’avrei colto anche al momento, mentre per la verità si impone alla mia attenzione soltanto ora che riesamino le foto: al momento ero come frastornato dallo stupore.
gli stupa, i templi derivati da più antichi e semplici cumuli di terra, che coprivano le reliquie del Buddha, hanno e devono avere: una base quadrata, che simboleggia il primo degli elementi cosmici, la terra; una cupola emisferica, che rimanda all’acqua; una torre a cono, simbolo del fuoco; una luna, in cima, che rappresenta l’aria; e infine un disco circolare che è l’immagine dello spazio.
su questo piano, dunque, la differenziazione rispetto ai tempi induisti della stessa Prambanan è immediatamente evidente, così come è a mio parere buddista la dilatazione prevalentemente orizzontale nello spazio, attraverso la moltiplicazione di piccoli edifici tutti eguali, rispetto allo slancio soprattutto verticale degli altri ciascuno dei quali si pone come un unicum, corrispondete alla unicità della figura personale divina alla quale è dedicato.
Buddha non è un Dio, ma soltanto una delle tante voci dell’illuminazione, che tra l’altro possono moltiplicarsi nella storia, senza carattere di eccezionalità: il che costituisce una speci di base fiondate della ripetitivtà buddista, perfino quando finisce col produrre l’effetto opposto e diventare un nuovo modo di esaperare il culto della eccezionalità assolutametne unica e irripetibile.
altrettanto tipica della concezione buddista dello spazio sacro è la presenza delle coppie dei demoni che sorvegliano i quattro ingressi della zona sacra orientati secondo i punti cardinali, che si ritrovano un po’ in tutta l’Asia buddista.
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ma se poi andiamo a guardare invece gli elementi decorativi in se stessi ci ritroviamo di fronte agli stessi identici motivi dei templi induisti che con questi convivevano a poco distanza, tutto fa pensare pacificamente: a volte si direbbe perfino che siamo davanti alla stessa mano artigiana.
gli stessi mostri che scendono lungo le balaustre delle scale con la bocca spalancata che contiene un altro mostricciattolo: gli stessi nobili corpi maschili e femminili intagliati come modello quasi vivente di eleganza nella pareti verticali; i camminamenti attorno al tempio centrale con balaustre che ricordano da vicino le altre.
anche nel commento musicale, sempre scelto dalle musiche tradizionale delle danze degli spettacoli che si svolgono nel sito, non si riesce a ritrovare una differenza.
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la discontinuità vera in Indonesia non è quella tra induismo e buddismo, che sono egualmente scomparsi e alla fine vengono a trovarsi nella stessa relazione tra paganesimo greco-romano e cristianesimo, con affinità più profonde di quelle che noi riusciamo facilmente a riconoscere, ma quella con l’islam.
e il canto del muezzin, che alla fine del videoclip si spande sopra le antiche rovine e scavalca l’inutile protezione dei demoni, è il simbolo della vera fine di quel mondo indo-buddista dell’antica Giava, che oggi ci appare molto più nobile ed ammirabile del suo piatto presente islamico.