Ci sono evidenze cosi` chiare, capaci da sole di distruggere mistificazioni secolari e i pregiudizi che ne conseguono e che ci impediscono di vedere la verita`, che si rimane quasi storditi quando la semplice eliminazione di una bugia consolidata ce le mette davanti agli occhi e non riusciamo quasi a credere di non esserci accorti prima.
In questo caso la mistificazione che occorre togliere di mezzo e` quella della autenticita` delle cosiddette Lettere di san Paolo, che sono il vero documento fondante del cristianesimo; credo di essere riuscito a dimostrare un anno fa che si tratta di una specie di romanzo epistolare della meta` del secondo secolo, che si trascino` con se` anche la stesura degli Atti degli Apostoli da parte di un autore che NON era quello del quasi contemporaneo Vangelo secondo Luca (nonostante affermi il contrario) e che aveva il problema di contrastare le idee teologiche contenute in esse.
A questo punto, come gia` detto un anno fa, l’evidenza, gia` constatata da piu` parti, della sostanziale differenza della cosiddetta Lettera agli Ebrei dal resto delle lettere, assume improvvisamente un significato nuovo.
Una volta definiti questi punti di riferimento fondamentali, questa evidenza si risolve, infatti, nella possibile autenticita` della parte originaria di questo testo, che era una trattazione teologica e non una lettera, una volta che se ne sia liberato il finale da alcune evidenti aggiunte, volte ad inserirla nel corpus delle lettere vere e proprie, creato piu` tardi.
Piu` sullo sfondo ancora sta la documentata veridicità` delle accuse mosse da Celso nel secondo secolo alla formazione della tradizione cristiana: non era una deformazione polemica, ma la descrizione di uno stato di fatto quando scriveva che era noto a tutti che i cristiani riscrivevano continuamente i testi della loro particolare tradizione interna per adeguarli alle varie esigenze del momento.
Detto in altri termini e` perfino sconcertante accorgersi che banda di incalliti raccontatori di balle fossero i fondatori del cristianesimo, che manipolavano a piacimento la vita e l’immagine di un maestro dell’ebraismo vissuto oscuramente qualche decennio prima: la cosa e` talmente grandiosa da non avere altri paragoni storici e risulta superiore ad ogni aspettativa critica, difficile da credere e da accettare perfino per me che la sto enunciando.
Eppure bisogna arrendersi all’evidenza di una verita` che, se fosse dichiarata in pubblico, scatenerebbe le accuse e le persecuzioni.
Meglio tacerla in un piccolo sconosciuto blog.
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Ritorno quindi sulla Lettera agli Ebrei, o almeno al trattatello teologico che ne costituisce la prima parte autentica, prescindendo dal finale posticcio e da qualche presumibile glossa, che possiamo individuare qua e la`, ma che in fondo non ne altera il significato generale, dopo le prime considerazioni svolte in questi due post:
IL PROBLEMA STORICO DELLA “LETTERA AGLI EBREI” – CCMC 7 – 591.
LETTERA AGLI EBREI E LETTERA AI ROMANI – CCMC 8 – 608.
La rileggo dunque la in queste giornate sveve, a partire da una sua citazione che trovo in un libro in tedesco sul Vangelo di Giuda, scoperto qualche decennio fa e pubblicato e tradotto da pochi anni.
Alla luce di questa nuova consapevolezza che lo fa ritenere opera di un ebreo inizialmente osservante (a grandi linee la figura di Saul, che sta sullo sfondo del personaggio Paulus), che datazione si puo` attribuire al trattatello teologico contenuto nella Lettera?
e qui mi scuso di alcune ripetizioni di cose gia` scritte (dovute al fatto che almomento in cui scrivevo non avevo sottomano i due post che linkato sopra e che affrontano il problema in modo piu` accurato).
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La collocazione cronologica che il testo stesso si attribuisce e` deducibile da questo passaggio al suo inizio:
2,1 Per questo noi dobbiamo applicarci col massimo impegno alle cose udite (…) 3 Come scamperemo noi se trascuriamo una cosi` grande salvezza come ci fu annunciata prima dal Signore e poi ci e` stata confermata da coloro che lo avevano udito? 4 mentre Dio aggiungeva la Sua testimonianza alla loro con segni e prodigi e ogni sorta di miracoli e con doni dello Spirito Santo distribuiti secondo la Sua volonta`.
In tutta evidenza il testo stesso si colloca in un periodo nel quale e` gia` avvenuta per un tempo significativamente lunga una predicazione che ha diffuso il messaggio di salvezza attribuito al Messia.
E nello stesso tempo il testo si definisce composto in un periodo nel quale non si conoscono ancora testi scritti che ne trasmettessero il messaggio, ma fa riferimento ad una tradizione solamente orale.
Lo stesso concetto e` ribadito nella conclusione, anche se in una parte che sembra appunto aggiunta al testo originario:
13,7: Ricordatevi dei vostri capi che vi annunziarono la parola di Dio; considerate quale fu il termine della loro vita e imitatene la fede.
Anzi, questo passo apre a sua volta diverse questioni, che qui intendo accennare solamente: chi sono i capi di coloro ai quali il testo e` rivolto?
Il termine capi e` alquanto strano, in quanto ci si aspetterebbe – se riferito ai predicatori del cristianesimo – piuttosto quello di apostoli.
Ma e` a favore di una datazione comunque piuttosto antica depone proprio il mancato uso di questo termine, del quale credo di avere dimostrato la comparsa piuttosto tarda in altro contributo,
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Un ultimo indizio per la datazione potrebbe alla fine essere riconosciuto nel passo centrale nel quale si cerca di convincere a non aderire ad uno spirito di rivolta, per non essere esclusi dal contatto con Dio, cioe` col Suo riposo:
3, 5: Mose` fu bensi` “fedele in tutta la casa di Lui” (Dio), ma solo come servo, per rendere testimonianza alle cose che dovevano poi essere annunciate; 6 il Messia invece vi e` stato come figlio a capo della casa propria: e la sua casa siamo noi, purche` manteniamo incrollabile fino alla fine la fede e la speranza di cui ci gloriamo.
7 Percio`, come dice lo Spirito Santo: Oggi, se ascolterete la sua voce, 8 non vogliate indurire i vostri cuori come nel giorno della rivolta, al tempo della provocazione nel deserto. (…)
10 (…) Mi irritai percio` contro quella generazione e dissi: hanno un cuore che sempre va fuori strada; non hanno conosciuto le mie vie; 11 sicche` nel mio sdegno giurai: Non entreranno nel mio riposo.
Si fa riferimento alla rivolta degli ebrei contro Mose`, ma come sfuggire alla suggestione che ci si riferisca, invece, allo spirito di rivolta anti-romana che prese piede nel mondo ebraico alla fine degli anni Sessanta del primo secolo?
Questo trattato teologico potrebbe essere letto anche come un appello, dall’interno della comunita` essenica (che in gergo veniva chiamata Damasco), perche` non aderisse ad una lettura fuorviante della figura del Messia, ma restasse ancorata ad una interpretazione pacifista del nuovo patto degli ebrei con Dio.
Ma qui si aprono scenari sconcertanti, ma fragili, sui quali non mi sento ancora di inoltrarmi.
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Infine, la descrizione piuttosto accurata del tempio di Gerusalemme e di alcune cerimonie che vi si svolgono lascia pochi dubbi su una datazione anteriore al 70, anno della sua distruzione.
Insomma, in questo caso tutto converge a favore di una datazione attorno alla meta` degli anni Sessanta del I secolo, che e` proprio quella comunemente accettata dalla tradizione cattolica.
Non ha neppure l’ombra della verosimiglianza, infatti, l’idea di un falso successivo che parli del tempio ebraico come ancora esistente: non se ne comprenderebbe la funzione ne` la logica: inoltre la distruzione del tempio sarebbe un argomento polemico troppo forte perche` potesse non essere usato in un testo indirizzato agli ebrei osservanti.
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Questo porta ad escludere che il trattatello teologico possa essere considerato, almeno nel suo insieme, come la stesura scritta del discorso di Stefano, prima della sua lapidazione, come riferito negli Atti degli Apostoli, 7, 2-52.
Tuttavia i punti di contatto fra i due testi sono veramente forti e stringenti, tanto da far pensare che l’autore degli Atti avesse sottomano questo testo, quando ha composto il suo.
Non soltanto la rivisitazione della storia ebraica tracciata da Stefano ha, se vogliamo anche ovviamente, una impostazione molto simile a quella di Ebrei, 11, 4-40, ma vi e` una particolarissima coincidenza nell’uso di un concetto specifico, quello del riposo.
eccolo nel discorso di Stefano, Atti, 7, 49:
Il cielo e` il mio trono e la terra sgabello ai miei piedi; qual casa mi eidificherete, dice il Signore, e quale sara` il luogo del mio riposo?
ed eccolo nel trattatello teologico contenuto nella Lettera agli Ebrei, 3, 18 – 4,11:
18E a chi giurò che non sarebbero entrati nel suo riposo, se non a quelli che non avevano creduto?
19E noi vediamo che non poterono entrarvi a causa della loro mancanza di fede.
1 Dovremmo dunque avere il timore che, mentre rimane ancora in vigore la promessa di entrare nel suo riposo, qualcuno di voi ne sia giudicato escluso. (…)
3Infatti noi, che abbiamo creduto, entriamo in quel riposo, come egli ha detto:
Così ho giurato nella mia ira:
non entreranno nel mio riposo!
Questo, benché le sue opere fossero compiute fin dalla fondazione del mondo.
4Si dice infatti in un passo della Scrittura a proposito del settimo giorno:
E nel settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere.
5E ancora in questo passo:
Non entreranno nel mio riposo!
6Poiché dunque risulta che alcuni entrano in quel riposo e quelli che per primi ricevettero il Vangelo non vi entrarono a causa della loro disobbedienza, 7Dio fissa di nuovo un giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo:
Oggi, se udite la sua voce,
non indurite i vostri cuori!
8Se Giosuè infatti li avesse introdotti in quel riposo, Dio non avrebbe parlato, in seguito, di un altro giorno.
9Dunque, per il popolo di Dio è riservato un riposo sabbatico.
10Chi infatti è entrato nel riposo di lui, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie.
11Affrettiamoci dunque a entrare in quel riposo, perché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza.
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Siamo quindi davanti ad uno dei primi testi autentici cristiani riferibili al periodo anteriore alla distruzione di Gerusalemme (assieme all’Apocalisse e, forse, ai Detti di Jeshu il vivente scritti da suo fratello gemello Giuda il Gemello).
E lo conferma un tratto comune a questi testi: che parlano di Jeshu il Vivente, non di Jeshu il risorto.
Questi testi corrispondono ad una fase del cristianesimo che affermano che genericamente attraverso la morte Jeshu ha potuto ricongiungersi al padre, ma ignorano ancora la fabulosa mitologia della resurrezione fisica.
Nonostante le molte pagine dedicate al tema della morte di Jeshu, mai, dico mai (tranne che nelle evidenti aggiunte del finale), accenna anche soltanto a quel fatto straordinario della resurrezione che, secondo le altre presunte lettere paoline, rappresenta l’essenza stessa della fede cristiana, tanto che questa sarebbe distrutta dalle fondamenta se la resurrezione non fosse avvenuta.
Insomma, la cosiddetta Lettera agli Ebrei, l’unico testo che ragionevolmente potrebbe essere davvero attribuito al Saul che ha generato la figura romanzesca di Paulus ed e` davvero vissuto nella prima meta` del primo secolo, morendo prima della grande rivolta e guerra ebraica degli anni Settanta, ignora la resurrezione come viene descritta dalle altre fonti cristiane riconosciute nel canone!
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L’importanza del testo della Lettera agli Ebrei non puo` dunque essere sottovalutata da nessun punto di vista, perche`, fra i testi citati, essa e` l’unica a fornirci gli elementi di una teologia cristiana delle origini (ben diversa peraltro da quella sottintesa nel cosiddetto Vangelo di Tommaso, sopra citato col suo titolo originario), ed apparentemente, si tratta di una teologia gia` solidamente impostata sulla base di alcuni criteri che ben poco sembrano avere in comune, nonostante l’apparenza, con la teologia cristiana successiva, e persino con quella attribuita a Paulus sulla base delle restanti lettere che vanno sotto il suo nome.
Ne schematizzo i punti salienti del resto gia` concentrati dall’autore nella squillante frase di apertura:
- Dio, dopo avere parlato agli Ebrei attraverso i profeti, ha parlato recentemente loro attraverso il Figlio di Dio (questa espressione non ha nulla a che fare, nonostante la somiglianza, con la successiva definizione cristiana del Figlio come persona della Trinita` divina, ma e` strettamente legata, invece, alla tradizione messianica ebraica; tornero` piu` avanti su questo punto fondamentale, ma possiamo dire da subito che l’intera elaborazione del dogma trinitario ha avuto la precisa funzione storica di mascherare il significato originario, tipicamente ebraico, dell’espressione).
- Il Figlio di Dio ha compiuto con la sua morte la purificazione dei peccati; anche qui la vicinanza alla teoria cristiana successiva della Redenzione e` solo apparente e marginale; di nuovo il riferimento e` strettamente connesso al pensiero religioso ebraico, nel quale l’alleanza con Dio deve essere sancita attraverso un sacrificio: che era quello imperfetto della tradizione ebraica, compiuto e rinnovato periodicamente col sangue degli animali sacrificati, ed e` ora il sacrificio perfetto, compiuto una volta sola, col sangue dello stesso sacerdote che si e` offerto spontaneamente e che cancella per sempre i peccati – almeno quelli compiuti fino a quel momento – garantendo a chi crede la vita eterna.
- Il Figlio di Dio ha assunto dopo la morte il suo posto accanto a Dio nei cieli, in quanto superiore agli angeli, come erede voluto da Dio di tutte le cose. E ben presto tornera` a realizzare il suo regno attraverso il giudizio finale: molto presto:
Si`, ancora un poco, ben poco tempo e poi colui che deve venire verra` e non tardera`. 10, 37
Solo un rapido ritorno di Jeshu da` infatti senso al suo sacrificio per la remissione dei peccati: di tutti i peccati.
Non si parla ancora affatto della cancellazione del peccato originale: elaborazione teorica successiva, che dovette subentrare a riempire di senso il troppo lungo vuoto, nuovamente pullulante di peccato, che veniva a crearsi fra il sacrificio del Messia e il suo ritorno sulla Terra: vuoto capace da solo di togliere senso al sacrificio stesso, nuovamente vanificato dal peccato.
Dunque, restando entro i limiti di quanto e` chiaro e documentato, il testo definisce con molta accuratezza e profondita` il ruolo teologico del messia ebraico, in quanto diverso dagli angeli e Figlio di Dio, e spiega con ricchezza di riferimenti biblici il significato della sua morte come necessaria alla stipula di una nuova alleanza degli ebrei con Dio.
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Ho detto degli ebrei, e potrebbe meravigliare; che la salvezza portata da Jeshu sia rivolta solamente agli ebrei, secondo l’autore di questo testo, e` una idea cosi` contrastante con l’immagine del Paulus presunto autore delle altre lettere che l’affermazione va documentata con cura, dato che l’evidenza della permanenza iniziale di una limitazione etnica nella destinazione del messaggio cristiano costituisce un discrimine cosi` profondo ed essenziale nella storia stessa del movimento che si e` ispirato a lui.
Ripeto alcune considerazioni gia` fatte altra volta: non soltanto lo accenna l’inizio del prologo stesso:
1, 1: Dio che anticamente aveva parlato piu` volte e in diverse maniere ai nostri padri, per mezzo dei profeti, 2 in questi ultimi tempi ha parlato a noi per mezzo del figlio).
Ma in modo ancora piu` chiaro in 2, 16:
Egli infatti non viene per essere di aiuto agli angeli, ma per soccorrere il seme di Abramo.
E in 8, 8 si attribuiscono a Dio queste parole:
(…) Ecco verra` un tempo, dice il Signore, nel quale io faro` col regno di Israele e col regno di Giuda una nuova alleanza.
Ed e` il Messia ebraico il mediatore di questa nuova alleanza (9, 15), sancita col suo sangue, come la prima era sancita dal sangue versato nei sacrifici del tempio ebraico.
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Tutto questo conduce ad un apparente paradosso, e cioe` che l’autore inclina palesemente per una interpretazione pacifista e, per cosi` dire, morale del regno di Dio, che vincola gli aderenti ad una attesa sostenuta dalla fede, senza cedere alle tentazioni della rivolta, che appare anzi come dettata dalla perdita della fede in Dio, ma le novita` introdotte dal trattatello teologico non rinnegano le radici rigorosamente ebraiche della visione del messia e non escludono quindi affatto la possibilita` di una sua lettura militante, anzi mantengono comunque una concezione integralistica e teocratica della sua figura, coerentemente con la tradizione ebraica.
E` questo radicamento integralmente e integralisticamente ebraico del trattatello teologico contenuto nella Lettera agli Ebrei che, in conclusione, esclude la possibilita` che il suo autore sia lo stesso Paulus apostolo tra i pagani della successiva tradizione leggendaria; e siccome tutto depone a favore del carattere piu` antico di questo testo rispetto agli altri contenuti nella raccolta delle Lettere, conferma, assieme alla incompatibilità` stilistica e alla diversita` dei riferimenti culturali e dei procedimenti argomentativi, il carattere apocrifo degli altri testi.