perche` non scrivero` il romanzo di Joerg Schwipper – 456.

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mentre silenziosamente predispongo un distacco soft dal blog e dalla sua malattia e osservo con un sorriso ironico che il ritiro nei monti nel quale pensavo di dedicarmi alla scrittura sara` invece proprio il luogo dal quale me ne liberero` dopo una vita nella quale troppo spazio e` stato dato alle parole inutili,

e mentre, nelle sere dedicate al recupero dei miei vecchi blog da una piattaforma che chiude e che li cancellera` fra due mesi assieme a centinaia di altri, straordinari, questo mi fa ripercorrere una stagione irripetibile di amicizie di bit, che divennero quasi amori,

mi arriva una lettera di Luisa Ruggio, che ha conservato ancora la fede nella scrittura.

anzi, una mail.

che mi annuncia, dopo quattro anni, la conclusione del suo romanzo su Joerg Schwipper, un blogger, un amico fuori del comune, per lei anche un amore, cancellato fisicamente a 46 anni da un melanoma quattro anni fa.

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Joerg, tedesco di Stoccarda, trapiantato da giovane in Italia, e maestro di stile a chi scriveva su blogs.it, senza volerlo essere, nella straordinaria modestia della sua presenza.

la morte di Joerg coincise con la crisi di quella piattaforma (i cui sintomi oggi vedo ripetersi nella piattaforma wordpress, e sono oggi forse segni piuttosto della crisi del blog come strumento di comunicazione inter-umana e non di semplice auto-celebrazione solipsistica) e di lui ho scritto varie volte, come per tenere vivo in me stesso il suo ricordo.

ora, i tre blog di Jipictus, come si chiamava Joerg nel blog, io li ho salvati prima ancora dei miei, e stavo pensando anche io di farne una pubblicazione, forse anche soltanto digitale, per tenere vivo il suo ricordo, e di costruire attorno a questo la storia della sua vita.

ma ora non ce ne sara` piu` bisogno, visto che ne ha scritto Luisa.

E’ il romanzo che ho scritto per Jorg, è Jorg.

Questa storia, la nostra, mentre la piattaforma di blogs.it sta per chiudere inabissandosi insieme a milioni di post e commenti e immagini che sono stati i nostri plausibili ritratti, le nostre molte età.

Luisa mi invita all’anteprima del suo romanzo, il 22 novembre, e penso che ci andro`.

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alcune cose che Luisa mi dice della lunga fase sua di creazione sono troppo private per dirle qui senza il suo consenso.

ma da alcuni mesi io vivo nel ricordo quasi quotidiano di Joerg, per un’altra strana coincidenza, che mi ha messo in contatto con una sua antica amica che abita a New Yorkcon la quale ci scambiamo mail e qualche volta chat quasi quotidianamente.

lei e Joerg si conobbero vent’anni fa, e l’amicizia mia che e` nata con lei, per ora soltanto fondata sulla scrittura (come fu all’inizio quella sua con Joerg o di Joerg con Luisa, via blog), me lo ha fatto conoscere umanamente sotto altri punti di vista, anzi mi ha messo di fronte ad una scoperta sorprendente.

e` stata questa rivelazione, anzi, che mi aveva suggerito di provare a scrivere questa storia straordinaria, che avrebbe incontrato nel tempo questo autentico colpo di scena: il lampo che illumina di colpo un palcoscenico gia` vuoto, ma rivela alla fine la chiave interpretativa dell’enigma di un uomo sensibile in fuga da se stesso.

magari attraverso quel viaggio in Oriente che ne mise a rischio la vita con una polmonite prima ancora che si manifestasse il cancro: e lo fece apparire comunque un predestinato alla morte precoce, come segnato da un tocco divino, la croce stampata in fronte ai primogeniti da sacrificare.

la notizia segreta e` che Joerg era stato prete, e lo era quando aveva amato quella ragazza americana.

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non ne aveva mai parlato, almeno con me, o pubblicamente sul blog.

la sua fede si sentiva, ma non aveva una coloritura particolare o a volte poteva parere buddista.

in una discussione sull’aborto, che ci aveva visti in dissenso deciso, ma amichevole, Joerg aveva rivelato una cultura teologica notevole, ma non avevo capito che la sua origine potesse essere stata il seminario.

troppi passaggi di questa sua vita avventurosa e piena di svolte mi sfuggono ancora e non mi sarei mai sentito capace di riempirli arbitrariamente con ricuciture di fantasia.

per me rimane un burrone aperto, una frattura fra il giovane Joerg, sempre molto amato da molte donne, che ad un certo punto di una vita gia` adulta si fa prete, e il Joerg maturo dei tempi del blog, che sbarca il lunario traducendo dal tedesco, o lavorando sulle barche come marinaio, sotto quella cocente luce del sole che uccidera` il suo corpo di gigante buono tatuato, ma non la sua anima, cioe` la forza innocente della sua personalita`.

ed ora non mi resta che aspettare il romanzo di Luisa Ruggio per riempire queste zone oscure e ricomporre le lacerazioni taciute che non hanno tolto, una volta scoperte, fascino alla sua figura, anzi l’hanno ancora aumentato.

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GIPICTUS. 3 settembre 2011

278. SCRIVIMI ANCORA, JÖRG. 9 settembre 2011

26. UN MESE DI VITA – PER SEI ANNI DI VITA: LA MORTE DI UN BLOG. 15 gennaio 2012

410. GIPICTUS’S BIRTHDAY. 18 agosto 2012

616. ESAME DI COSCIENZA DI UN BLOG BULIMICO. 14 dicembre 2012

84. LUISA RUGGIO: ERA ORFEO IL PAZIENTE TEDESCO.   20 febbraio 2013

(questo post e` protetto da password, che non ho piu`, quindi devo considerarlo perduto, dato che la piattaforma rifiuta di visualizzarlo anche per me, che pure sono l’autore).

PRIVATO: LETTERA DA NEW YORK CITY SU JORG.  11 marzo 2015.  

(questo post e` privato e quindi ci si deve accontentare del titolo).

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chiudo questo elenco dei miei post dedicati a lui su questa piattaforma, traccia immaginaria di un discorso continuato su di lui e con lui, con una mia dedica a Joerg di un post

7. CONTRO IL SENSO DEL BELLO. 8 gennaio 2010:

(dedico questo post a Jörg Schwipper, l’amico svevo che forse può capirlo più di altri, in quanto italo-tedesco (in Italia) come sto sforzandomi per altro percorso di diventare io in Germania e in quanto scrittore che condivide con me in questo momento – e da un quadro di ben differenti capacità espressive – il silenzio della scrittura letteraria come punto interrogativo sui doveri dello scrittore).

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ma non posso evitare di ricopiare qui (visto il rischio che la chiusura della piattaforma li faccia sparire) due post che Luisa Ruggio dedico` a Joerg.

La lettera J.

a Jörg

“Amatevi”
(Agricantus)

“Chiedete alla polvere della strada! Chiedete loro di Camilla Lopez, e sentirete sussurrare il suo nome.”
(John Fante, “Chiedi alla polvere”)

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Fuori è buio, abbiamo acceso le luci da poco nella casa-torre con gli scalini trasformati in scaffali.
Mi chiede cosa desidero per festeggiare. La vita, l’esserci beccati nello stesso secolo, vivendo molto al di sopra dei nostri mezzi, cos’altro?
Allora, dice, avanti, dice.
Desidero una favola, capo, scrivila su questa agenda.
Una favola, così, dopo cena, a stomaco pieno?

Una favola, capo, a lungo, ogni notte, mi hai inviato una favola, ora voglio guardarti mentre lo fai, scrivine una davanti a me, una favola allo specchio. Qui.
Ma guarda tu, dice, ragazzi, dice, questa è matta, dice.

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Mi guarda e ride, ride con la bocca aperta, tutto il suo corpo ride, è un corpo gigantesco, un corpo cattedrale, un corpo geografia, pieno di colori tatuati sulle braccia, sulle gambe.
Scrivila, capo, scrivila. Faccio una voce bambina.
Di tutto quello che è stato scritto, dice, citando Nietzsche, io amo solo quello che uno scrive col suo sangue.
Ehi, bello mio, dico, pazzo vandalo di un tedesco, è così che mantieni i propositi?
Se la ride, e qui mi frega.

Apre l’agenda dalla copertina amaranto e inizia a scrivere, a stampatello. Preferisce così.
Ogni tanto solleva lo sguardo e vede quello che sta scrivendo: boschi color ambra accanto al Volga, stormi di fenicotteri rosa, cieli onice, ottantotto uomini bardati e armati di archi su cavalli bianchi, veloci come la tramontana, gentili e di un’eleganza semplice.

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Volta pagina e continua a scrivere del banchetto per la Regina: cappesante scottate – si scrive capesante, capo, con una sola p. Davvero? Sì. Incredibile, incredibile, dice, dopo tutti questi anni ho ancora un senso tedesco per le doppie. – piccoli pesci marinati, liquore di bambù. A questo punto la sua grande mano destra che scrive, si ferma.
Mi guarda e scoppia a ridere. E che risata. Penso: è così che mi ha fregato.

Ma cazzo, dice, ragazzi, questa non è una favola, dice, sembra un elenco, ho fatto un menuuuu, cazzo.
Ridiamo così a lungo che cerchiamo un pensiero triste per smetterla, altrimenti ci verranno i crampi.

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Ci soccorre la sequenza finale de Il paziente inglese, è una sequenza abbastanza triste e se non basta c’è sempre il finale di Carlito’s Way, La mia Africa, il finale di Blade Runner, il finale di Ask the dust, un mucchio di finali insomma, abbiamo solo l’imbarazzo della scelta.
E questa è la nostra specialità: passare l’istante al montaggio.
E dai, dico, non guardarmi, capo, non guardarmi che è peggio.

Comunque, sforzandosi di simulare un minimo di serietà, continua fino a pagina otto, numera le pagine, è un tipo molto preciso. Ama le cose fatte in un certo modo, per esempio non capisce come ho fatto a rigargli una pentola, mi insegue intorno al tavolo e me la fa pagare cara tagliandomi via la bretella della canotta che indosso, col coltello da pane.
L’ha detto Nietsche, capo, stavo scrivendo col sangue, stavo scrivendo col sangue!
Non sulla mia padella!

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Si è allenato a cavare qualcosa dal caos e questo allenamento è la vita segreta della mente, una vita in cui lui nuota. Ha sviluppato branchie, arriva prima dei suoi pensieri, conosce davvero l’acqua, conosce profondamente lo stupore e se ne serve. Il cinismo, se non è misurato, per lui è un insulto. Così anche il cieco intellettualismo, l’atteggiamento cronico dei distratti che non sanno inventare un tempo per fermarsi.

Alla fine si alza, prende un timbro, l’iniziale del suo nome, un rilievo nel quadratino di legno che intinge nell’inchiostro rosso.
La lettera J.
Un sigillo rosso sotto le ultime parole della favola: … il quale le sussurrò dolcemente: taglia!

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Anche qui, capo, anche qui.
Gli porgo l’incavo del gomito e lui timbra stando attento a non rovesciare la lettera J.
Perché la lettera J, se rovesciata, diventa la lettera L.
Un tipo preciso, che ci tiene all’esattezza, queste cose le sa.

Non pronuncia il mondo a vuoto, sa farlo esistere, anzi molto meglio, sa farlo vivere: può costruire intere città con una manciata di parole scelte con cura estrema, restando in ascolto.
Indice e medio dietro un orecchio, l’altra mano in grembo, gli occhi azzurri chiusi.

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La notizia che lui, la lettera J – il capo, Mordecai, il principe eremita – è morto, prova a prendermi. E’ successo per davvero, è morto, ed io non so che cosa fare. Cammino, a testa bassa come un toro, nei viali. Faccio una torta ma mentre la impasto mi accorgo di non avere zucchero in casa, la inforno lo stesso. Poi la mangio, sa di lievito.

Il telefono squilla in continuazione, per giorni, tutto è la pinna di uno squalo che fiuta il mio terrore, che mi cerca per dirmi che lui è morto. Faccio sogni agitati, sogni nei sogni nei sogni nei sogni nei sogni, in cui la lunga ombra dello squalo mi gira intorno in cerchi sempre più stretti.

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Ma lui mi trova, perché lui conosce i miei nascondigli, mi tira via da lì, e ce ne andiamo dove ci pare e piace, nei mondi che abbiamo inventato insieme e pronunciato, persino questo, nell’anno del Signore Duemilaundici, adesso.

Rileggo un suo sms recente: Sono nell’antica isola araba di Eivissa, ogni paese ha il nome di un santo. Entro nel sole. Ti vedo, sai?

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Si sentono i grilli nella casa-torre in cui ci ritiriamo, abbiamo lasciato le finestre aperte, non un filo di vento muove le tendine di merletto bianco, da lontano si intravede il chiarore interno emanato dalle lampade che lasciamo accese fino a notte fonda, parliamo fino a tardi. Ci raccontiamo una storia, perché una piccola storia che viene raccontata diventa una grande storia, diventa altre storie. Come quella del falegname sciamano, non altro fuorché un uomo.

Tutte le finestre di questo vecchio posto sono protette da tendine, ce ne sono persino nella stanza dove non si deve entrare, c’è il rischio che il pavimento ceda ed è qui che lui conserva le locandine, le pietre, le lettere, tutta la vita in cui crede e che traghetta e che semina.

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Gli uomini che incontra sono i suoi continenti, il suo giardino, i suoi libri non scritti. Certe volte attraversa insieme a loro una città, altre volte spacca parole, scardina realtà e cammina insieme a loro in un panorama della mente.
Un panorama che gli somiglia, fatto di una umanità che entra in ogni cosa, debordando.

Conosco quel panorama, mi si è slargato davanti un giorno in cui ho captato un sonar forte e chiaro, mi credevo inconquistabile finché lui non ha schierato i suoi arcieri. Ed erano parole, perciò qualunque cosa.

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Come gli stati emotivi raggruppati – ramoscelli riuniti, dice, pronti per prendere fuoco, dice – nella Donna di fronte al cielo mattutino, quel quadro di Friedrich, del 1810.
Mi ha sempre colpito, dice, per l’indeterminatezza di quello che rappresenta.

E’ il titolo a dirci che è mattino, altrimenti potrebbe essere anche il tramonto.
E, in ogni caso, davanti a cosa la donna sta?
Sta, dice lui, le mani aperte, senza età, indeterminata nella sua occupazione.
La donna sta.

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(“Frau vor untergehender Sonne”, Caspar David Friedrich)

Mi ha spedito una scatola, una volta. Ancora non sapevo che standogli davanti, in piedi, non avrei superato il suo torace, per guardarlo negli occhi avrei dovuto alzare la testa.
Nella scatola c’era un pane, l’aveva avvolto in una stoffa ruvida. Un pane vero, lo potevo mordere, sapeva di buono e lo chiamavo per nome, lo chiamavo amore, amico, madre padre fratello sorella.

Mi aveva detto che anche Chiara aveva donato un pane a Francesco, gli aveva creduto, nei giorni in cui Assisi pensava che gli avesse dato di volta il cervello.

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Sa raccontare quella storia, una delle mie preferite, meglio di chiunque altro, meglio del televisore a bottoni che me l’ha mostrata per primo, quando ero ancora una bambina e lui era già passato da Fuerteventura, aveva visto un uomo cacciare le murene con una fiocina, dormiva sotto gli alberi, riconosceva distintamente l’odore della santoreggia e del rosmarino, sentiva le correnti.

Mentre imparavo a camminare, a lasciare l’approdo delle mani per sedermi sugli scalini di casa a guardare la forma delle nuvole passare mutando, lui era già sulla spiaggia di Netanjia che bagna Israele, aveva disperso biondezza per diventare un mandriano di onde.

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Avanti nella vita, ne avrebbe scritto: Ogni mare è diverso. Non si può entrare in un mare senza conoscerlo, così come non si può entrare in una donna senza conoscerla, è pericoloso, si rischia la vita.
Ci penso la prima volta che lo guardo nuotare, sotto il pelo dell’acqua, dopo aver spaccato un melone dolce di un verde tenero che si combina con il viola della sera.

Quando lui era un bambino, invece, quali storie gli avevano mostrato? Tutto era ammantato di neve, in quelle storie. Così lui era venuto dalla neve, dal bianco.
E’ quel bianco che mi ha mandato incontro ogni volta che ha scritto una favola notturna, un bianco a perdita d’occhio in cui ha lasciato convergere tutte le cose, tutta la Bellezza.

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Non ne aveva mai abbastanza, come me del resto, perciò le favole continuavano al telefono, oppure durante le lunghe passeggiate in una città che ci ospitava per un poco.
Firenze, Pietrasanta, Andrano, Gotam City, Nairobi così com’era nei diari di Karen Blixen, l’Indonesia verde giada, il Siam, Berlino, il Paese delle Meraviglie, Oz, la città dei nostri nomi speculari.

Le favole continuavano in un gioco di rimandi a pagina centoventi, in un libro di due copie soltanto, nel suono degli antichi haiku, nella sequenza di un film, un milione di film tutti insieme, una canzone degli Agricantus, nel vagone di un treno, tra gli oggetti di un mercatino dell’antiquariato, nella bottega di un tatuatore, al tavolino di un bar, tra le statue dei santi, in una taverna, al gate di un aeroporto, in una stanza rossa piena di voliere, durante la stesura infinita delle conversazioni, in un tango da fermi.

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Mi precedeva, andava avanti. Poi mi sversava dentro la sua cartografia, sentivo la sua mano dietro la schiena, un calco a fuoco tra le scapole.

Mentre imparavo l’alfabeto, lui ragionava sul tempo futuro spiegato da Einstein: le cellule evolvono in base alle spinte temporali infinite sull’asse dell’universo. Un giorno avrebbe scritto: qualsiasi asse sia, sappiamo che è presso di noi. Anzi, ci attraversa. Mentre chiedevo ai miei genitori di lasciarmi dormire da sola, nella stanza in fondo al corridoio aperta sul pescheto, e leggevo le favole illustrate nottetempo, lui si stava facendo tatuare gli omeri dall’altra parte del mondo.

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Mi dia un poco della sua forza, capo.
Dolcezza, eccoti un sorriso silenzioso.
Sei un vandalo, sei, raccontami la favola dell’assassino.
Eh, l’assassino, tanta roba.

Tu sapevi dove aveva sepolto la pistola, capo?
Nel bosco, l’aveva sepolta nel bosco, alla fine della guerra.

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Guarda di lato, sfila via da un album – così come farebbe con la lisca di un pesce – la fotografia in cui sta dormendo, ancora bambino, tra le braccia di suo nonno, io non sono ancora nata, sono indeducibile, ma qualcosa muove verso l’incidente del mio esserci, troverò una fessura tra i secoli.

Una volta, mi hai ucciso, capo?
Ride, gli piace questo argomento, gli piace raccontarmi della volta in cui forse mi ha ucciso.

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Perché ogni favola che scrive è una vita possibile, e in quelle vite siamo ogni volta in un posto diverso, in un tempo diverso, nel gioco dell’oca che traguarda il riconoscersi, un gioco che abbiamo spinto al limite.

Nella favola in cui mi lasciava una mensura sullo zigomo sinistro, mi salutava com’è solito tra noi: Che i secoli siano con te.
E’ questo il codice che marchia i libri donati, i biglietti di accompagnamento ai film che arrivano all’improvviso, le cartoline dal Nuovo Mondo, gli sms, gli auguri di Natale e di compleanno, i rebus delle lingue che ci divertiamo a mescolare, colori, suggestioni, sinestesie.

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Nella favola in cui ho una freccia nella gamba, capo, tu chi sei?
Sono il cerusico, ti tengo ferma, la punta non deve restare dentro.
Nella favola in cui fuori piove, io chi sono, capo?
Sei la ragazza dipinta, hai voluto i miei disegni sulla schiena.

Ci ripenso, mentre una ragazza mi versa di nuovo da bere, in un bar notturno, quando si volta vedo la geisha tatuata sulla sua schiena.
Mentre attraversavo i Balcani, diretta a Varna, per perfezionare i miei fouetté in bilico su scarpette da punta cucite a mano, lui teneva ferma una ragazza nel vecchio quartiere francese di Hanoi, gli anziani vestiti di nero facevano Tai Chi lentamente.
Ama la lentezza, chi ne è capace, davanti a un altro, davanti a una pagina.

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Mando giù la seconda sorsata mentre lui mi tira di nuovo via da lì, nuota più in fretta del liquido rosso che tenta di allentarmi, gli resisto, non voglio allentarmi, voglio sentire il coltello che lui spinge, lo lascio affondare fino in fondo. Usando l’avambraccio come un rastrello contro il mio sterno, può spostarmi altrove e lo fa.

Giochiamo a braccio di ferro, mi dice che se voglio posso far leva con entrambe le mani.
No, dico, voglio fare come te, capo.
Non ti arrendi, cocciuta?
Tutto questo è reale, la mia mano nel suo pugno, questa forza, questa dolcezza.

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Mentre il padre di suo padre marcia nella neve tornando dalla Russia verso Berlino, il padre di mio padre diserta a El Alamein, in Africa.

Mentre due soldati russi violentano una giovane donna che un giorno sarà sua nonna, un’adolescente scampata ai bombardamenti su Napoli seppellisce il suo nome di battesimo e altri fantasmi per chiamarsi Luisa, come una diva del cinema muto.

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Mentre vado il più lontano possibile da casa, mentre sposto i miei libri di casa in casa, lui sente di nuovo la voce del mare, si volta e decide di ricominciare, punta verso il Nepal, e ancora verso Konya, in Turchia, verso le danze dei dervisci.

Mentre guardo una sequenza di Lanterne Rosse e mi si dilatano le pupille, lui in un altro cinema di una città lontana sta guardando la stessa sequenza e sta sorridendo, scivolando con la schiena su un sedile di velluto verde bottiglia.

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Mentre una ragazza mi fora l’ombelico e lo sigilla con acciaio chirurgico, lui sta affilando un coltello e sta rinunciando al suo mandato.

Mentre un’auto blu mi investe sospendendomi la memoria per tre giorni, lui sterza verso il mare di Puglia, quella capigliatura che erode le coste, sommergendole, un poco alla volta.

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Ma anche i viaggi che inventa sono reali, è un mito ogni sosta, ogni bosco, ogni casa, ogni luogo il cui nome non ha importanza perché è solo perdersi e poi sperare di essere ancora degni, degni di amore. Presi dall’incanto, da una maledetta voglia di piangerne.

In questa favola, lui mi insegna ad essere povera, la disperata ironia di vivere subito, provare tenerezza per un dio incarnato; mi insegna a lasciarmi attraversare da quello che arriva e che se ne va, mi insegna a resistere, a cadere, a rimettermi di nuovo in piedi, prenderle, darle, con discrezione, con pudore, l’oracolo della parola scritta, essere pronta all’amore senza condizioni, la più potente tra le preghiere.

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La sera in cui incomincio la stesura del mio primo romanzo, lui avverte la presenza di una donna contro il suo fianco e si sveglia per cercarla.

Mentre mi sfioro la nuca, pensando che non ho mai avuto i capelli così corti da lasciarla nuda, lui attraversa Firenze in bicicletta ascoltando le conchiglie del mare pugliese tintinnare nella tasca della giacca, entra in casa e inizia un blog, Pictogrammi, surfa nel Web.

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All’alba di un giorno del mondo, dopo una rassegna stampa in cui leggo un articolo che traccia la mappa dei luoghi in cui ancora si muore di scrittura, inizio anch’io un blog, questo, Dentro Luisa. Sembra niente, eppure da quel momento la nostra vita così come la conoscevamo cambia profondamente. Lui scrive: Fuori dal tempo a volte è il viaggio. Come un flusso di coscienza.

E in questo flusso, noi ci ritroviamo, mescolando il dna di tutto quello che ci ha portati fino a questo punto di una storia minima.
Il mio secondo romanzo non era altro che un Cantico per lui.

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Plano sulla sua spalla e lui mi insegna. Abbiamo già imparato a leggerci fino in fondo quando ci incontriamo in un taxi e ci stringiamo le mani e gli avambracci.
Mi insegna a perdonarmi, a stare insieme a me, nei miei voti, i miei No.

No, non ho vissuto invano, anch’io ho camminato su questo mondo, tra gli uomini, anch’io ho amato e mi sono lasciato amare, questa è la mia storia, ed è la storia della mia specie, la specie di quelli che restano in ascolto, che sondano l’Universo, che si innamorano, scrivono canzoni, lettere per l’antologia del vento, muovono Bellezza, costruiscono ponti, si ubriacano, si mettono in viaggio, cercano, trovano, scoprono, custodiscono, salvano idiomi, tentano, si meravigliano pur conoscendo il finale.

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Lui è il mio Maestro, il custode dei mondi, un varco di parole che sfarinano come sabbia e si rimodulano a formare fiumi verdi, convolvoli notturni, storie, un lasciapassare umano, un cortocircuito nell’armonia indifferente dell’Universo, turbata dalla sintonia delle essenze.

Altrimenti che senso ha scrivere? A cosa serve tutta questa pioggia di parole sotto cui ora cammino? Che cos’è un blog? Che cos’è un raccontastorie? Un uomo, che cosa rappresenta? Che cos’è questo cuore atterrito?
Ora che la sua vita è compiuta, mi sono procurata una nuca nuda. Sono scesa alla baia di Torre Dell’Orso nottetempo, ho guardato la marea salire e ho accettato il destino della mia gente, questo mistero, questa fede.

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La fasciatura delle fibre del mio cuore non tiene, ed è in questo slacciarsi che risponde, lui ancora risponde. Un uomo è la sua storia.
Mentre perdo la verginità, lui si sta innamorando di Dio. Mentre vedo nascere la più piccola delle mie sorelle, lui sta indossando una talare. Mentre guardo la lettera J sulla mia Olivetti Lettera 35 e penso che sembra un amo da pesca, lui sta nutrendo il fuoco dei predicatori.

Il telefono squilla, lo squalo mi bracca ancora e ancora. E’ morto, mi ripetono. Eppure io vedo il bianco accecante che mi manda incontro, la pagina bianca, neve a perdita d’occhio.
Io sono il fodero, lui la lama.
Non è niente, posso correre più veloce dei miei pensieri, è solo un’altra favola umana, sta ancora in piedi, malgrado tutto, con fierezza, con dignità, si pronuncia un istante dopo il destino.

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(J.)

E in questa favola, capo, chi sono io, capo?
Tu sei Luisa.

E tu, chi sei tu?
Io sono Jörg.

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Lost persons area. (domenica 19 agosto 2012)

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Ieri una giornata perfetta. Oggi vago nella nebbia. E’ cominciata nel dormiveglia, nella debole luce dietro il paravento di stoffa. Mi piace sciogliere gli ormeggi alle tende della camera da letto, che sono uno spartiacque tra la mia scrivania, questo fronte, e il resto della casa. O forse, il resto del mondo.

A volte immagino che questa casa sia stata dipinta pensando a una cabina di legno degli anni ’30, in qualche spiaggia deserta sull’Oceano. Mi manca l’Oceano, il suono della luce a Coney. Al risveglio nessun orologio, una colazione lenta, con Dario. Una lettera di Clara. Poi a mollo nelle mie pagine.
Nell’ora di luce post atomica, fuga al mare, noi due, da soli. In cerca di una spiaggia deserta. Potremmo scegliere qualunque posto da qui in capo al mondo, parliamo dei viaggi a venire. Portogallo. Sud America. Africa. Indonesia. Non ci facciamo mancare niente.

Telefoni muti, una benedizione. Gamberi. Libri nuovi, un paio. Gratto il fondo di Murakami, e comincio con Boll. Me ne ha parlato Alessandro, qualche sera fa, quando l’ho premiato in una piazza gremita per il suo reportage sul caporalato nei campi di angurie, a Nardò.
Mare agitato, come piace a me. Così le spiagge si svuotano, finalmente. Restano soltanto quelli che capiscono davvero il linguaggio dell’acqua. Così pochi.

Gatti. Un film. Fantasmi.
Tutta la notte in ascolto. Sparisco per un giorno dalla scena della mia vita, un giorno durato anni, secoli, frangenti. Tutto è cambiato. Non riconosco alcuni luoghi vissuti ogni giorno per dodici anni di fila. Tutto è sogno, il sembiante di una metamorfosi profonda. Sono molto lontana. Eppure così vicina.

Ma il mio spirito oggi è in volo. Con l’amico di polvere, pazzo vandalo di un tedesco. Nato oggi. Ma certo. Che cosa credono tutti quanti?
Merry Christmas Mr. Lawrence. Ovunque.

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11 risposte a “perche` non scrivero` il romanzo di Joerg Schwipper – 456.

    • grazie a te!

      Luisa e` davvero straordinaria, lo so.

      quanto agli incontri incredibili, occorre anche dire che qualcuno sembra piu` predisposto di altri a farne: forse chi li desidera?

      sembra che loro lo sentano da lontano chi ama di averne e vadano a cercarlo. 😉

  1. Io sono arrivata tardi, non l’ho conosciuto, quindi questo romanzo lo vorrei leggere. Hai detto che hai salvato il suo blog, allora lo puoi pubblicare in forma di romanzo digitale magari. Perchè non scriverlo? Chi come me non l’ha potuto conoscere almeno avrà una piccola chance di poter scorgere la sua luce quando ancora non era esplosa in mille stelle.

    • una delle motivazioni portate qui sopra per NON scrivere questo romanzo in effetti e` venuta meno ora che ho letto il romanzo di Luisa, pubblicato a gennaio.

      e` molto diverso da quello che potrei avere in mente io, naturalmente, e poi direi che e` piu` il romanzo di Luisa che il romanzo di Joerg.

      e` un romanzo lirico; io sono della scuola lombarda, come romanziere (mancato), e penso al romanzo come ad una forma di descrizione della realta`.

      resta l’ostacolo maggiore: che non sono capace di scrivere romanzi.

      ne ho provato uno a vent’anni, ma si fermo` presto.

      e neppure il “romanzo” che avevo provato a ricavare dalla storia di mio padre in Africa e` mai stato finito, nonostante si basasse sulle sue lettere.

      infine cor-pus, inteso come testo scritto e non come blog, non e` mai andato oltre i primi sette capitoli.

      il romanzo che scriverei se fossi capace sarebbe tutto formato dagli scritti di Joerg, come hai intuito; sarebbe soltanto una riorganizzazione delle sue parole secondo uno schema cronologico…

      ma qui si aggiunge un problema pratico: che diritto ho io di usarli?

      ci saranno pure degli eredi che hanno dei diritti su quello che lui ha scritto.

      eccomi ancora perplesso all’idea.

      intanto posso pero` mandarti per mail qualche file col suo blog, se credi.

      • Capisco i tuoi dubbi in fatto di diritti ma potresti aprire un blog, scriverci le sue cose e mettere un avviso per i possibili eredi, che se vogliono quegli scritti li possono avere e che non sono tua proprietà. Tu hai solo pensato che fosse bello far conoscere i pensieri di Jorg agli altri. Io lo farei 🙂 Non dovresti scrivere alcun romanzo, non è carino quello che ha fatto Luisa, perchè prendere la vita di un tipo e metterla in un romanzo è ancora più oltraggioso, significa violarla senza il suo permesso. Come se io dopo la tua morte mi mettessi a scrivere un libro su di te senza il tuo permesso. Invece un blog che riporti solo le sue parole è la cosa giusta. Ma se non te la senti niente, capirò 🙂

        • primo punto: secondo me e` un ottimo suggerimento. anzi, mi chiedo perche` non ci ho pensato prima, nel momento stesso nel quale ho deciso di ripubblicare i miei blog, egualmente cancellati: e` stata una specie di pudore, come di paura di violare la sua privacy, senza pensare che non c’e` piu`.

          fra l’altro, senza togliere nulla a lui di quello che ha scritto, potrei in questo modo avvicinarmi all’idea del libro che mi sarebbe piaciuto scrivere su di lui, forse una biografia molto frammentaria, piu` che un romanzo.

          secondo punto: secondo me non c’e` nulla di oltraggioso nello scrivere la vita di qualcuno che e` morto e non serve affatto il suo permesso.

          c’e` gente che scrive biografie di Shakespeare ancora oggi, per dire, e non ha bisogno del suo permesso.

          neppure io quando mi convinco che Shakespeare era soltanto il prestanome di Giovanni Florio, per dire.

          e non era l’autore dei sonetti, ma colui al quale i sonetti stessi erano dedicati… 😉

          terzo punto: anche un’altra persona ha trovato discutibile la scelta di Luisa; io no, per nulla; trovo positivo qualunque azione volta a ricordare qualcun altro, tranne quando non sia diffamatoria o oltraggiosa.

          l’amica Luisa Ruggio ha voluto rivivere e far rivivere la sua storia con lui; l’ha fatto in un’ottica molto soggettiva, come poteva essere ovvio.

          ci vedo un gesto di amore (alla luce della personalita` di Luisa), dove starebbe l’oltraggio, scusa?

          • Ma io non ho parlato di oltraggio infatti, ho solo detto che io per esempio preferirei leggere le parole originali di Jorg piuttosto che una versione “mediata” della sua vita personale. Poi ovviamente magari c’è chi preferisce lo stile romanzo di Luisa.Ma sono gusti questi.

non accontentarti di leggere e scuotere la testa, lascia un commento, se ti va :-)

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Yanis Varoufakis

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